S’ i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo
questa fiamma starìa sanza più scosse.
Ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s'i'odo il vero,
sanza tema d'infamia ti rispondo.
(Inf. XXVII, 61- 66)
Ho trascorso una non indifferente parte della mia esistenza nel cercare – al di là di ogni desiderio di erudizione, neppure del resto volutamente nascosto, d'altronde di per sé anche, seppure superficialmente, appagante la cupidigia di arricchire lo spirito, quand'anche al fine, e così soltanto non è, di apparire più adornato a chi volesse traguardare la mia mente, in un non poi tanto deprecabile pavoneggiamento – di spingere il pensiero, stavolta sì per una strenua pulsione di essere, nel pensiero di Dante, nella disperazione di Leopardi, nel cuore di Keats e di Shelley, tanto da credere – almeno credere, consapevole di limiti come di improvvise agnizioni e illuminazioni – di condividere il senso, il nutrimento, dei loro propositi; e di per questo tanto più limitato, circoscritto, se non pure incomprensibile e demenziale, il mondo ove mi muovo, dove vegeto e onde traggo sostentamento; come potrei, con quale immane sforzo di totalizzante schizofrenia riuscirei, nonché a credere, a ubbidire a procedure, a moduli e stereotipi di comportamento, a schemi preconfezionati di pensiero, a preziosismi stilemici che di sé cercano di permeare il nulla dal quale promanano e che tentano, oscenamente incestuosi, di ingravidare di sé? E come ancora sostenere, seppure con l'alibi (di per sé comunque alienante) della sopravvivenza, mia e di quanti da me in questo dipendono, l'inanità del tutto, l'inutilità che, m'appare chiarissimo, ogni impegno il più pragmatico non riesce a nascondere, il rincorrersi verso l'abisso del domani. Inutili catarsi vado escogitando nella quieta esegesi dei versi immani.
Ho lentamente ripreso la lectura Dantis. Secondo prassi sempre nel tempo uguale e che ogni volta stuporoso solo a posteriori riconosco uguale a sé, come le postume profezie del poeta: il faticoso inizio nella dolorosa sensazione di dejà vu, quasi di noia, dovuto alla disabitudine; la lettura frammentaria di passi isolati delle Cantiche, alla ricerca dei personaggi più noti, dei passi più risaputi, quasi che la Commedia risiedesse in essi; il risvegliarsi dell'empito di meraviglia di fronte alla sgomentante bellezza di alcune terzine, alla sospensione del cuore sugli enjambements; il ritorno della sempre inappagata curiosità interpretativa, della furiosa acribia del dantista, cui peraltro non oso e non posso paragonarmi; il risvegliato ricordo, infine, della gigantesca melodia – la struggente musicalità dei versi di Dante è un mistero che non cessa di stupirmi – contrappuntata dalla assonanza totale alle cose terrene che permea di sé, fatata di lontananze talvolta e folgorante talaltra per immediato (e in- mediato, e forse in- meditato) riferimento, le Cantiche stesse.
Posso vedere, posso ammettere, arrendendomi infine, la vita – dunque, quand'è così/caro signor padrone/la vita che menate è da briccone! – recita Leporello al signor don Giovanni. E perché, allora, pur avendo visto e saputo, o non foss'altro percepito, oltre, io che servo a Mammona non sarei io un briccone, ovvero almeno, con quelle vesti che da me ho cucito su di me, nelle quali altri mi conoscono e – ora solo, temo comprendere – mi riconoscono, un buffone, accedendo a facile rima e rinunciando anche al carisma, seppur negativo, del cinismo (egoismo, altra assonanza mentale prima che materiale?). Ma, dicevo, la autodifesa di dover sopravvivere e ciò altrui anche, soprattutto, consentire, mi si rimodella tra le dita in un angoscioso auto- da- fé nell'esame del bilancio consuntivo della mia sopra- vivenza intrisa di becera inutilità, della consapevolezza di una inutile disperazione che si dispera di disperarsi inutilmente.
Come in un vecchio film scorrono accelerate immagini di una corsa vertiginosa il cui ultimo senso e scopo è l'annichilazione dello spirito, è la vittoria del "brutto poter che ascoso/a comun danno impera", e lampada di proiezione potente e cruda, immisericorde rivelatrice di strappi e pietose rattoppature, è questo mio ridestarsi come da un sonno lunghissimo, da un drogato oblio che ha moltiplicato l'imbelle ripetersi di pochi atti elementali come un'unica immagine diffratta da prisma di vetro, che ha dilatato la breve cellula temporale nella quale tutto si è svolto fino a contrabbandarla per intera esistenza; il tuo usignolo, your nightingale, mio disincantato poeta che hai incantato quei pochi pregnanti momenti donde ancora traggo rimpianti accorati e infinite domande, è sparito nella valle accanto, nella valle non conosciuta, e m'ha lasciato immerso in uno stordente silenzio che, improvviso, è esploso con uno schianto ultraterreno e m'ha ridestato all'horror vacui – was it a vision, or a waking dream?