Gina rovista nei cassetti di una scrivania colma d’effetti personali. Ogni cosa appartiene al suo passato, si confonde con il calore affettivo che emana e si perde, inesorabilmente, in un alone di sublime tristezza. Trova per caso un breve racconto, scritto dalla figlia Licia, emigrata come lei in Francia negli anni 60, e lo legge ad alta voce.
“Il tempo filtra lo scorrere della vita, la rende più matura, l’invecchia, ma le lascia un dolce ricordo degno di un dono: il destino.
Non sappiamo dove nasce e quando muore, ma che esiste lo vediamo: lascia fiorire le nostre illusioni in una gran delusione.
Siamo stati costretti ad emigrare in un paese chiamato “fortuna”, portando con noi buone braccia e gran volontà per guadagnare un tozzo di pane secco, bagnato di maledetto sudore ma di “saporita” speranza.
La domenica, restavamo a casa, soli con i nostri pensieri e con la nostalgia di un emigrante, costretto a vivere in un paese che non conosce e che non può capire.
Quando mandavamo notizie in Italia, forse, scrivevamo con una rozza penna e con un inchiostro fatto d’acqua sporca, ma mandavamo buone notizie. Mio padre lavorava come un mulo: partiva all’alba per tornare al tramonto, stanco, sfinito, ma felice di essere stato capace di sfidare il suo destino così crudele ed egoista.
Mangiava nelle “gammelles” *, sopportava la miseria, la lontananza per fare di noi, suoi figli, qualcuno nella società, perché siamo schiavi, sudditi del simbolo del progresso, soverchiatore di un maledetto destino che costringe i suoi figli a vivere lontano.
Che strano destino! Devono vivere sottoterra, nelle miniere, prima di morire, come talpe, come vermi…
Perché dobbiamo emigrare in un paese che ci tratta come cani?
Silenzio… La risposta è il silenzio.
Adesso, siamo tornati in Italia, siamo stranieri del nostro stesso paese. Ti dicono che non sai parlare, che non sai pregare come loro e ti invitano, di grazia, a ritornare a soffrire, a crepare.
Maledizione, maledizione, maledizione.
Quando il velo della notte scenderà sui nostri occhi che hanno saputo amare per far vivere, essi sorrideranno e dolcemente diranno addio alla vita che li ha resi vagabondi del destino e, tutti insieme, partiremo un’altra volta “emigranti” verso il Divin Salvatore.”
Dopo aver letto il racconto, Gina è malinconica: la lettura ha riaperto le ferite mai completamente rimarginate e legate al suo passato di emigrante in terra “fertile” ma ostile.
L’anziana donna si avvicina alla finestra, scansa lentamente la tendina e guarda fuori.
È tardi.
Per una delle tante stradicciuole di «Amardolce», un uomo cammina pesantemente sulla morbida neve, sporca di polvere.
A prima vista, sembra un mendicante che cerca un rifugio per la notte.
Ma chi è in realtà quest’uomo?
Ora, al chiarore della luna, può vederlo bene in viso: è un vecchio extra-comunitario, ha dei lunghi capelli neri che cadono sulle robuste spalle curve, una barba incolta, una lunga cicatrice sulla guancia destra, due occhi color “lutto” che sembrano fissare l’abissale vuoto che lo circonda ed una bocca ben formata che lascia uscire un umile e profondo respiro.
Indossa un lungo cappotto militare, come quelli che indossavano i nostri padri durante l’ultima e crudele guerra mondiale, ed un rozzo paio di scarponi sfondati.
Dietro di lui, cammina dolcemente un cane magro, un cane destinato a seguire un uomo senza destino.
Un bastardo che non ha mai assaporato il dolce calore di una cuccia. L’animale sembra essere l’unico e sfortunato compagno di viaggio dell’uomo.
Ma chi è in realtà quest’uomo?
Un bandito, un eremita, un fallito che cerca di fuggire dal suo destino o un emigrante in cerca di una sponda amica dove cercare rifugio e fortuna…
A chi lo chiediamo? A lui o al suo cane?
No, forse a nessuno, perché non ci sarebbe risposta.
L’unica cosa certa, è che l’unica traccia di vita che l’emigrazione lascia dietro di sé sono le orme dei suoi passi incerti… oggi come ieri…
* Gavette in francese.