Era un piccolo ometto Daniel. Saltava su e giù dal muretto per dimostrare a se stesso quanto fosse forte. Aveva due grissini al posto delle gambe e un ciuffo ribelle che lo contraddistingueva ovunque. Un grande osservatore, un pozzo inesauribile di domande. Si accendeva per un nonnulla e difficilmente si spegneva se un con un rimprovero della madre, quando proprio nulla sembrava contenerlo. Se lo metteva addosso quella donna per riempirlo di tutto il suo amore, per esserne colmata a sua volta come un ricambio dell’anima che ha bisogno d’infilarsi ovunque. Ed era bello vederlo crescere. Ogni giorno una conquista, ogni attimo l’ipoteca su quello che sarebbe stato il suo futuro. Con quegli occhi nero catrame s’inseriva nel mondo per scrutarlo meglio, per appropriarsi di quel che l’essenza era pronta a donargli. Ed era quello il momento propizio, il tempo per stupirsi, per non ingannarsi, per dare all’esistenza l’esatta rampa di lancio. Sua madre gli regalava minestre calde, preghiere e riposi al profumo di marsiglia. Se lo coccolava al risveglio, quando ancora assonnato succhiava il pollice, nonostante avesse ben otto anni. La vita glielo restituiva ogni giorno indifeso e lei lo preparava come sempre alla partenza. Conosceva bene le sue debolezze, i blocchi emotivi, ma sapeva anche come funzionava il mondo e che non lo avrebbe aspettato un solo momento. Che da lì in poi bisognava scendere a patti con quello che si è ed accettare fino in fondo la propria diversità. Fingere con se stessi sarebbe stato deleterio. Quale assurda parte avrebbero dovuto recitare?....e perchè? Lei lo aveva capito fin dal primo momento e adesso sperava che anche gli altri per una volta tanto si accorgessero di loro, dei sorrisi veri come chiunque . Sperava ci fosse qualcuno pronto a scommettere su quel corpo rammollito, su quell’ometto imperfetto, che lei solo sapeva essere in grado di dare tanto. Ma i sogni, spesso, corrono più d’un levriero, si arroccano nella testa come un castello su una vetta e restano lì come una roccaforte inespugnabile.
Il tempo correva lento e Daniel mutava nel corpo. I suoi capelli rosso canaglia incorniciavano uno sguardo acceso che non finiva mai di meravigliarsi. A scuola tutti lo chiamavano "il fusillo" per quel suo corpo inconstistente e i ricci maldestri fin sopra le spalle. A sua madre pareva un angelo e se lo raccoglieva ogni giorno tra i fumi della casa come una benedizione. Da quando il suo uomo se n’era andato non le era rimasto che lui. Ci aveva messo un attimo a lasciarla sola una volta saputo della gravidanza ed era stato duro crescere Daniel. I suoi erano rimasti in Romania in condizioni disperate e lei aveva tentato la fortuna in un altro Paese. Aveva incontrato Arianna, una giovane ventitreenne con la quale instaurò subito una profonda amicizia. E fu proprio grazie a lei che decise di portare avanti quella gravidanza inaspettata. L’aveva conosciuta in una notte estiva, a cavalcioni su un muretto intenta ad ingurgitare birra, le aveva chiesto una sigaretta e senza accorgersene in poco meno di un’ora s’era ritrovata a raccontarle parte della sua vita e a condividere con lei la passione per il ricamo. Entrambe, lontane da casa, decisero di cercare un buco dove alloggiare. Trovarono a due lire una specie di garage arredato. Piene di entusiasmo investirono i pochi soldi che rimanevano nell’acquisto di materiale per il ricamo. Provarono a vendere qualcosa per la strada, ma il ricavato era insufficiente per pagare l’affitto e così arrotondavano facendo pulizie in qualche casa. Un giorno passò di lì un’anziana signora ben vestita che notò i lavori. Prese in mano un piccolo asciugamano color champagne e ne scrutò attentamente il ricamo. Rimase in quella posizione per un bel pò, arricciando il naso e alzando con una mano gli occhiali da vista per vederci meglio da vicino. Ad un tratto chiese chi avesse fatto quel lavoro ed Arianna alzò l’indice, pensando la donna volesse fare un reclamo. Restò invece meravigliata nel sentire gli elogi. Osservò attentamente tutti i lavori comprese le tovagliette dell’amica e, all’improvviso, chiese ad entrambe se erano disposte a lavorare per lei. Non ci pensarono su due volte e quel giorno per loro fu un nuovo inizio.
Daniel nacque qualche mese dopo e nonostante un padre in fuga si sentiva avvolto da un amore grande. Chiamava Arianna zia e quando non c’era sua madre correva ciondolando verso lei come un giocattolo a molla. Si sentiva protetto in quelle quattro mura che adesso avevano la parvenza d’una vera casa. Fuori da quella gabbia d’oro non c’era scampo. Amava leggere, era assetato di tutto, sguazzava tra le pagine come una trota in un fiumiciattolo cristallino e aveva una memoria incredibile. Godeva nel recitare poesie, nel calarsi nei personaggi delle varie storie, ruotare con l’immaginazione attorno alle cose per poi restituirle al mondo sotto una nuova luce. Amava sporcarsi le unghie, affondarle nella creta per dare anima all’inanimato, sgaiottolare tra i libri come un topo di biblioteca. Quello era il suo mondo. Un tuffo nella fantasia per ritrovarsi integro in un contesto che lo vedeva rattrappito. Senza poterne fare a meno. Era come essere risucchiati nudi dall’ignoto per poi riemergerne vestito d’oro. A scuola le cose non andavano bene, l’insegnante di matematica non trovava nulla di buono in lui, sempre pronta con la penna rossa a rimarcare gli errori, poco propensa a passargli l’inezia. A suo modo era riuscita a convincere Daniel di quanto poco valesse, ad infilargli nella testa che quel mondo non era fatto per lui, ma per coloro che s’impegnavano. Non aveva capito come era fatto Daniel, di quale sforzo si rivestisse ogni giorno per potersi affermare nel mondo. A lei servivano i risultati e lui era fin troppo lento nel darglieli, troppo distratto, poco attento. Aveva iniziato ad umiliarlo, a non prenderlo sul serio e lui sentiva che a nulla servivano gli sforzi. Era come dire: ti punisco perché nonostante tu voglia dimostrarmi il contrario non riuscirai mai nella matematica come tutti gli altri. Erano solo le elementari, ma Daniel iniziò a provare una grande avversione per quel mondo. Cominciò a sentirsi preso di mira, un po’ lo zimbello della classe. Oltretutto era l’unico a non avere un padre. Cominciò a zoppicare anche nelle altre materie e a divenire sempre più scontroso. A casa era arrabbiato con sua madre, perché adesso era consapevole che non era stata in grado di proteggerlo.
Passarono gli anni e di quel bambino pieno di curiosità restò soltanto qualche ciocca pel di carota e gli occhi un po’ più spenti. Sua madre se n’era andata all’altro mondo dopo una lunga malattia, quando lui aveva appena sedici anni. Per un po’ seguì verso il nord Arianna, abitò con la sua nuova famiglia, ma appena ebbe compiuto diciotto anni se né tornò nel suo paese d’origine. Aveva lasciato a metà gli studi, ma era in grado di badare a se stesso. Da un po’ faceva qualche consegna col motorino e qualsiasi altro lavoro occasionale. Il suo fisico non l’aiutava molto. Spesso si stancava prima del previsto. Un suo amico, un giorno, gli chiese se voleva dargli una mano in teatro. Si trattava di un lavoro interessante. Avevano bisogno di qualcuno che se la cavasse con l’ago per dare una mano alle sarte sempre più indaffarate a sfornare costumi per lo spettacolo di fine anno. Daniel era cresciuto con l’ago in mano. Sua madre, per tenerlo indaffarato, gli regalava pezzi di stoffa che scartava per per farlo giocare al ricamo. Accettò volentieri e s’immerse nel nuovo mondo con tutto il suo stupore. i tessuti erano meravigliosi, pieni di luci, evanescenti nei colori. Rasi e velluto tra le mani, sembravano quasi toccarlo nel vivo del suo cuore. Lavorava per ore ed ore. Gli ultimi giorni erano quelli più duri. Tutto doveva essere pronto entro tempi precisi. Mentre cuciva, con la mente s’infilava nell’abito ed era arrivato a provare un forte dolore nel vederlo indossare da altri. Nell’affidarlo, chinava lo sguardo come chi teme un addio. Era come consegnare la propria pelle su un piatto d’argento. Una sera, sul tardi, un suo superiore lo pregò di recarsi al laboratorio con urgenza per verificare che fossero state spente tutte le apparecchiature. Daniel un po’ scocciato e infreddolito prese il motorino e si recò sul posto. Era tutto spento e gli abiti erano lì come sempre, alcuni ancora sui manichini per essere solo riparati. Non seppe resistere. Preso da un raptus indossò un abito da palcoscenico. Si guardò allo specchio e, come per incanto, cominciò a recitare Shakespeare. Ricordava a memoria spezzoni di opere di cui si era ingozzato negli anni bui e che adesso riproponeva sullo specchio come un automa pieno di sentimento. Tutto sembrava condurlo in un altro mondo. Non si era accorto nel frattempo che qualcuno lo osservava dal buio. Si voltò di scatto. Un lampo di vergogna saettò sul suo volto facendolo sentire ridicolo, un inetto. Guardò per la prima volta in vita sua, dritto negli occhi, l’uomo che adesso aveva di fronte ed ebbe l’istinto di abbassare lo sguardo. Voleva chiedere perdono per aver osato tanto, ma l’uomo ne aveva colto il genio e ne era rimasto impressionato. Per la prima volta qualcuno lo riconduceva a se e ne riconosceva l’essenza, la sua pienezza, quell’irrisolta fragilità così autentica che lo liberava da se stesso. Ed il palco fu suo, perché nato per esso, perché insito nel suo flusso. Potè vibrare nell’intimo del suo corpo, lo stesso corpo che gli altri gli avevano restituito zoppo, ma che lui da lassù sentì finalmente integro e pienamente risolto. Fu così che si sentì parte dell’infinito.....Un essere immortale nell’universo.
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