(Le sere di Rebecca)
Le sere stavano prendendo tutte la stessa piega. Quel senso di insoddisfazione per la vita aveva preso il sopravvento su qualsiasi sentimento o pensiero. Se ne stava lì ed aspettava. Non sapeva neppure cosa. Pensava ad un foglio bianco. Se fosse stata un foglio bianco, avrebbe preferito su di sé un ventaglio di colori o immergersi in una pozza di nero inchiostro?
Ricollegava il tutto all’ infanzia, ad un album nero, al disegno da colorare con i pastelli a cera. Un disegno imperfetto, abilmente sostituito da un altro che non difettava di nulla, ogni dettaglio mirabilmente sottolineato ed i colori scivolati con dolcezza avvolgente.
Ma non era il suo, non era quello portato a termine con tanta fatica da una bambina, era di un adulto che avrebbe voluto che lei disegnasse e colorasse alla perfezione, da artista.
Ecco, una delle tante pause, uno dei tanti pensieri.
Si le sere erano così, senza arrivo e partenza, senza uno scopo preciso, a volte dinanzi ad un pc che fungeva da sostanza allucinogena, perché era uno sfogliare frettolosamente pagine di social, un restare sbigottito per le cose insensate condivise che riscuotevano così tanti like da perdere il conto. La gente è ammattita, pensava, fa a gara con tutto, non ha idee sane, interessi, passioni, è vuota.
Durante il giorno era anche peggio. Nessuno capiva le sue necessità. Aveva smesso pure di curare il suo modo di vestire. Orecchini o braccialetti chiusi nelle scatole. Non ricordava neppure quando li aveva comprati. Apriva l’ armadio e metteva addosso la prima cosa che si trovava davanti, anche perché effettuare una scelta consapevole dell’ abito da indossare avrebbe significato scavare e scavare tra quella montagna di roba che neppure più ricordava.
Per andare dove? Impegni, doveri, lavoro, nient’ altro. Fuori e dentro casa a servizio degli altri e, quando giungeva alla fine della giornata, era talmente stanca che non poteva pensare a cosa indossare l’ indomani, con quale paio di orecchini agghindare quei lobi così chiari e gentili o con quale orologio cingere il polso sottile.
Troppa fatica. L’ indomani sarebbe stato uguale al precedente. Era una corsa continua, sbrigare quante più cose possibili, di prima mattina, nell’ ora precedente il lavoro. Quello vero, quello per cui riceveva uno stipendio mensile. Così il pomeriggio, dopo l’ ufficio, avrebbe avuto un po’ più di respiro, tra una cosa e l’ altra.
La sera, ogni sera ormai, era sfinita, senza nessuna voglia di andare avanti. Odiava la routine, gli schemi, le abitudini e ne era ormai vittima. La mattina, però, con nuova energia si metteva all’ opera, armata di entusiasmo, ricaricata. Eppure dormiva poco e male, talvolta aveva visioni, non sognava, aveva visioni in uno stato di dormiveglia, circa i problemi che la preoccupavano maggiormente. Con pazienza seguiva, per quel che poteva, la scaletta delle cose da fare. No, si dice, agiva per priorità. Perché non le portava tutte a termine, ma solo una parte, quella a cui assegnava un ordine necessario. Ed erano cose che contemplavano un interesse rivolto agli altri. E quando alla fine si trattava di dover fare qualcosa per se stessa, crollava e con lei tutto il mondo intorno e le aspettative, i progetti, le idee geniali che spesso si presentavano alla sua mente, i suoi sogni.
Feste e folla non l’ attraevano. Silenzio e letargo, ecco a cosa ambiva, queste due parole amava pronunciarle ad alta voce, come se così facendo tutto sarebbe cambiato. Si, silenzio e letargo, le condizioni che avrebbero potuto trasformare la sua solitudine in uno stato di grazia, un regno dove vivere felice come nelle favole.