Erano i tempi in cui credevamo veramente di essere capaci di rivoltare il mondo, come un calzino, e di ripulirlo con il solo candore delle nostre certezze. Avevamo nel sangue la sfrontatezza innata, tipica dei ventenni degli anni settanta, pensavamo di poter toccare il cielo con il dito, ed è in questa visione onirica che ho scritto questo racconto che a molti sembrerà frutto della mia immaginazione. In realtà, è una storia realmente accaduta.
A dire il vero, la prima persona che me ne parlò fu Renato, un mio ex-collega di corso nonché amico di lunga data.
“Dovresti vederla, Sergio, è una suora di clausura ed è bellissima!” mi disse il mio amico un giorno, all’ombra della “Torre degli Asinelli” di Bologna, durante una giornata particolarmente ventosa.
Per tutta risposta alzai gli occhi al cielo ed ebbi la vaga sensazione che la torre si contorcesse anche lei per le risate. Questa volta, l’aveva fatta grossa. Non prestavo attenzione ai suoi apprezzamenti perché esagerava sempre, soprattutto se si trattava di donne. In tutti i suoi ragionamenti, c’erano sempre donne bellissime, incontri sconvolgenti, appuntamenti galanti e quant’altro, sempre legati ovviamente alla sfera femminile.
Qualche giorno dopo la sconvolgente rivelazione, siccome la Facoltà di Lettere e Filosofia che io frequentavo era stata occupata dagli Autonomi, Renato mi trascinò fisicamente all’interno del convento e mi costrinse a inginocchiarmi in prima fila, proprio davanti all’altare dove un prete ci guardava con stupore perché eravamo i soli giovani, in mezzo ad una decina di donne anziane vestite di nero, che assistevano alla funzione religiosa.
“Dobbiamo aspettare che cominci la messa così te la faccio vedere…”, mi sussurrò all’orecchio.
Cercai di assumere un atteggiamento ossequioso, nonostante il fatto che in quel particolare periodo della mia vita fossi diventato agnostico dopo la morte di mio padre.
Indirizzai il mio sguardo verso le candele accese sull’altare, che davano all’ambiente circostante un’aria misteriosa e claustrofobica per non distrarmi e soprattutto per darmi un contegno dignitoso, consono al luogo sacro in cui mi trovavo, mio malgrado.
“Eccola!”, mi disse Renato sferrandomi una gomitata sul fianco che mi lasciò senza fiato.
Mi guardai attorno con circospezione per scoprire dove si nascondesse quella “splendida creatura di Dio” ma non riuscii a scovarla subito.
Improvvisamente, poco prima che il sacerdote iniziasse la celebrazione della Messa, la suora di clausura, bella come la Madonna in persona, apparve magicamente dietro ad una finestra con le sbarre che si affacciava direttamente sull’altare costituito da una lastra marmorea sostenuta da quattro supporti e che richiamava vagamente la tavola dell'Ultima Cena.
Era inginocchiata, in penombra, vicino a una corona di lumini i cui riflessi tremolanti le davano, un so ché di misterioso. Indossava con grazia un velo nero e le mani giunte davanti al viso ne nascondevano i tratti somatici. Era poco più di una sagoma all’interno di una stanza illuminata dalle luci sommesse delle candele.
Tornai a osservare la pisside dorata deposta sull’altare per cercare di non distrarmi perché avevo avuto l’impressione che le donne anziane che recitavano mnemonicamente una preghiera si fossero accorte del mio interessamento per quella suora di clausura che attirava inconsapevolmente la mia attenzione.
Fu proprio nel preciso momento in cui il prete afferrò nelle mani il turibolo, che sprigionò un intenso profumo d’incenso nel convento, che la vidi per la prima volta nella mia vita.
Era bellissima: sembrava il ritratto vivente di Santa Monica del quadro di Piero della Francesca. Le mancava soltanto quell’espressione severa che le rattristava il viso e il cartiglio bianco in mano, per essere la sua gemella. Rimasi letteralmente sconvolto dalla sua magnificenza. Ebbi l’occasione d’intravedere i suoi occhi quando il sacerdote le somministrò l’ostia attraverso le sbarre della finestra. Erano di un colore indefinibile e brillavano come due stelle cadenti nella notte di San Lorenzo.
Mi alzai come un automa e mi misi in fila dietro alle donne che si apprestavano a ricevere l’eucaristia per avvicinarmi a lei. Rimase inginocchiata per alcuni minuti che a me sembrarono secoli, poi si alzò, si fece il segno della croce e tornò a sedersi.
“Giovanotto, ho l’impressione che lei non sia ancora pronto per ricevere il corpo di Cristo…”, mi disse il prete con un filo di voce, forse, perché aveva percepito il mio imbarazzo.
Rimasi in silenzio per alcuni istanti, poi resomi conto che la mia mente stava fantasticando troppo, mi feci per la prima volta il segno della croce dopo la morte di mio padre ed uscii dal convento piangendo.
Da quel fatidico giorno, mi recai in quel luogo a prendere la comunione ogni mattina, prima di recarmi in Facoltà, fino a quando un giorno d’inverno, Don Giorgio mi disse che Suor Angela era andata via da Bologna per rinchiudersi in un convento sugli Appennini dove non avrebbe mai più avuto contatti con gli esseri umani.
Suor Angela, di cui ero segretamente innamorato, aveva scelto di passare il resto della sua vita a praticare il silenzio, la preghiera e l’isolamento totale.
Ma per alcuni anni della mia vita, quella figura, rimase nei miei sogni, come un miraggio, dove avrei voluto poter dissetare quell'arsura dei miei vent'anni, finché lentamente si tramutò in un dolce ricordo.