La conobbi per caso in un fastfood di Lilla, in Francia.
Era di una bellezza mozzafiato. Indossava un paio di jeans sbiaditi che metteva in risalto la sua femminilità, senza essere volgare. Si sedette casualmente vicino a me mentre m’ ingozzavo con un orribile panino che puzzava di aglio. Guardandola di sfuggita, mentre mangiava un’ insalata, mi accorsi subito che non era né francese né italiana: poteva essere colombiana, cilena o peruviana.
Presi il coraggio a piene mani e le chiesi:
“Signorina, mi passerebbe per favore la senape?”
Afferrò il vasetto di senape con una grazia innata che mi sconvolse letteralmente e me lo porse senza proferire parola.
Continuai a mangiare facendo finta d’ ignorarla. Ero ormai rassegnato quando sentii una vocina labile che mi paralizzò il sangue nelle vene.
“Lei è italiano, vero?”
La guardai con meraviglia perché aveva indovinato subito la mia nazionalità.
“Sì, sono abruzzese. Della provincia di Chieti e lei di dov’è?”
Si pulì accuratamente la bocca con un tovagliolo di carta e si girò verso di me. I suoi occhi color ramarro mi mettevano a disagio per quanto erano cangianti e belli.
“Sono nicaraguense. Abito in un quartiere popolare di Managua”.
Feci abilmente ricorso alle mie reminescenze scolastiche.
“Il Nicaragua? La rivoluzione sandinista, il poeta Ruben Darí o… Non ci crederà, signorina, ma ho appena letto “ Managua in minigonna” di Daniel Ortega”.
Mi guardò con quegli occhi color ramarro che continuavano a turbarmi.
“Ha letto il libro del Presidente!”
Si avvicinò lentamente a me e mi sussurrò:
“Dopo la dittatura di Anastasio Somoza, il popolo nicaraguense è finalmente tornato a respirare aria di libertà…”.
La guardavo estasiato. Le parole che la donna nicaraguense pronunciava erano musica per le mie orecchie.
“Lei, signore, che lavoro fa?”
“ Sono lettore all’ ” Université Lille Nord”. Insegno italiano ma sono laureato in francese”.
La donna mi guardò con molto interesse.
“Le piacerebbe venire a insegnare francese in Nicaragua?”
La guardai meravigliato perché la sua proposta mi colse letteralmente di sorpresa. Era stato sempre il mio sogno andare a lavorare in un paese sudamericano.
Balbettai: “Mi piacerebbe molto, signorina. Se vuole, le faccio avere il mio curriculum- vitae”.
La donna aprì la borsetta e mi porse un foglio dattiloscritto. Lo presi nella mano e cominciai a leggere ma mi resi conto che il contratto era scritto in spagnolo.
“Se vuole, signore, le dico io le condizioni contrattuali scritte in quel documento, così non perde tempo nella traduzione… e mi dice subito se la proposta è di suo gradimento”.
“ A quanto ammonterebbe il mio salario?”
“ Quattromila dollari al mese, aereo, vitto e alloggio compresi”.
Ero senza parole. Era il triplo del salario che percepivo in Francia.
Continuai a balbettare “ E quante ore di lezione dovrei fare a settimana?”
“ Trentasei ore a settimana, con quattro giorni liberi al mese”.
Ero al settimo cielo per la felicità. Avevo finalmente trovato un lavoro che sapesse coniugare la mia professione d’ insegnante con le mie aspirazioni recondite di rendermi utile, nel mio piccolo, in un paese rivoluzionario.
Mi guardò dritto negli occhi e aggiunse:
“Sei ore di lezione al giorno più quattro di addestramento antiguerriglia…”
Soltanto in quel momento mi ricordai dell’ esistenza del comandante Zero e delle decine d’insegnanti uccisi dai Contras…
Ero diventato bianco come un lenzuolo. Non riuscii neanche a spiccicare una parola.
La donna prese il contratto tra le mani, lo ripiegò accuratamente in quattro, mi salutò con un cenno della testa e scomparve tra i clienti del fastfood.
Non avevo superato il più importante test della mia vita, senza aver letto neanche una parola del contratto scritto in spagnolo.
Di quella drammatica esperienza, ho rimosso quasi tutto ma non riuscirò mai a dimenticare i suoi occhi color ramarro.