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La foresta

Fantasy

Ma come ho fatto a ritrovarmi qui? si chiedeva smarrita, mentre calava la notte e persino l’ ombra della vegetazione sul sentiero si sfocava fino ad annullarsi.

Vagava senza più orientamento in quell’ intrico di alberi e cespugli da tanto tempo ormai, da così tanto che non ricordava più il momento preciso in cui la certezza di uscirne l’ aveva abbandonata, per lasciare il posto ad una rassegnazione desolata.

Il buio le gravava sugli occhi e faceva fatica a tenere aperte le palpebre sotto quel peso, come se la forza di gravità dal centro della terra stesse attirando su di lei i rami intricati degli alberi, le nuvole, il cielo, le stelle, quella pallida luna di settembre e l’ intera galassia.

Sentiva che le forze la stavano abbandonando e avvertì fortissimo l’ impulso di lasciarsi cadere sulla terra umida del sottobosco, come una foglia tra le tante sparse ai suoi piedi, già accartocciate e in parte macerate dall’ umidità del terreno. Sarebbe bastato solo quell’ attimo, il coraggio di lasciarsi andare e poi avrebbe dovuto soltanto aspettare che la natura facesse il resto. Il vento l’ avrebbe sollevata e fatta vorticare, l’ avrebbe sgretolata, e all’ alternarsi delle piogge e del sole, lentamente si sarebbe decomposta sino a svanire nel nulla.

Si sarebbe stabilita, allora, anche in lei quella condizione di pace, di annullamento della coscienza, quel silenzio della mente, rilassante, salvifico, che deve necessariamente accomunare tutte le creature che con la morte fisica cessano di vivere e di patire.

Pensava a queste cose belle e terribili, quando un fruscio tra gli arbusti la riportò alla realtà, e mentre tutto il corpo rimaneva immobile i suoi occhi si spostarono agili in ogni direzione, alla ricerca di ciò che si era mosso vicino a lei. Il cuore, poco prima quasi fermo in un momentaneo stand by, riprese a battere freneticamente e i battiti le risuonavano nelle orecchie, accompagnati da un ronzio sordo di api impazzite.

Avrebbe voluto urlare, chiedere aiuto, ma la voce strozzata in gola non aveva suono. E chi l’ avrebbe udita, d’ altra parte? In quella solitudine assoluta del bosco, solo gli animali e le piante potevano sentire la sua disperazione.

Qualunque pericolo la stesse minacciando, pensò, doveva affrontarlo da sola e l’ esito dello scontro sarebbe rimasto ignoto al mondo degli uomini, troppo lontani per vedere e udire, tutti così liberi, tutti così fortunatamente fuori da quella foresta buia e senza uscita.

Accanto a lei, così vicino da sfiorarle la spalla, il ramo più basso di un olmo campestre che giganteggiava tra gli aceri e i faggi, oscillando come un braccio che volesse stringerla a sé, picchiettò leggero sulla sua nuca scoperta.

Istintivamente gli si accostò, lo afferrò e lo tirò in basso, stringendoselo al petto per nascondere il viso tra le sue fronde.

Per qualche attimo la sua mente fu invasa solo dal profumo di foglie e corteccia viva, un profumo così intenso da inebriare, intenso e delicato insieme, una carezza lieve e tuttavia vigorosa, piena di energia vitale, che le avvolgeva l’ intero essere quasi in una morsa da cui non si sarebbe potuta né voluta svincolare mai più.

Lasciò che le palpebre si chiudessero finalmente sugli occhi, ma senza peso, dolcemente, aprendo la strada al sogno e alla comprensione simultanea di tutto ciò che le gravava sull’ anima, a quelle sensazioni apparentemente prive di senso a cui si era ribellata tante volte, forse proprio per il timore di non essere capace di intenderne il significato e lo scopo.

Nel sogno parlò a lungo con l’ olmo e aprì tutto intero a lui il suo cuore. Osò pronunciare parole precise e inequivocabili sulla causa vera della propria sofferenza e confessò le sue colpe e l’ amore eccessivo che aveva favorito, quasi con una silenziosa acquiescenza, gli errori dell’ essere che lei stessa aveva procreato.

La Vita, le disse l’ olmo, ecco cos’ era quella immensa foresta, quella selva oscura, in cui gli alberi sembravano poveri esseri con le membra contratte dal dolore, con le braccia ferite e intorpidite, innervate dalla disperazione.

Ricordò che un tempo era stato un giardino e lei vi aveva danzato sulle note della speranza e dell’ amore.

Allora aveva lavorato come un esperto giardiniere, aveva colto i fiori più belli, aveva goduto dei profumi più intensi, aveva giaciuto in notti piene di stelle con il corpo disteso sull’ erba e il volto alla luna.

Poi, pian piano, la vegetazione si era irrobustita, infoltita ed era stato bello il lavoro del boscaiolo. Tagliare qualche ramo secco, giocare con gli innesti più arditi, nascondersi sotto le folte chiome di un grande faggio o di una quercia robusta e aspettare che la tempesta passasse.

Ma pian piano anche il faggio e la quercia si erano disseccati, e lei era rimasta sola a difendere se stessa e i suoi germogli, che crescevano e le chiedevano di proteggerli e sostenerli a sua volta. Da allora, troppo spesso sul suo capo scoperto erano caduti la grandine e il gelo.

Pesante e scomodo il testimone passato nelle sue mani.

Aveva lavorato con grande forza, aveva messo in campo tutte le proprie energie, spesso utilizzandole male o poco o esageratamente. Aveva cercato di difendere il suo pezzetto di terra, malgrado i fulmini spezzassero periodicamente i rami più belli del suo albero più amato e più malato. Aveva tentato do tutto per salvarlo, per liberarlo dal male e restituirgli la pienezza di vita che una crescita troppo precoce aveva guastato anzitempo.

A consolarla, solo un giovane olmo, con la corteccia ancora sana e verde. L’ avrebbe protetto con la sua chioma, come aveva fatto la quercia con lei, per impedirgli che raggi troppo infuocati gli bruciassero i germogli primaverili. Sapeva che un giorno anche lui sarebbe cresciuto e avrebbe avuto bisogno di essere potato, innaffiato, nutrito. E lei lo avrebbe fatto, molto meglio di come era riuscita a fare col primo, perché non si ammalasse anch’esso. A entrambi non avrebbe mai negato le sue cure, finché ne avrebbe avuto la forza.

Ma anche la sua linfa cominciava a disseccarsi. Avrebbe dovuto affrettarsi a dare tutto il meglio di sé, prima dell’inverno.

Questo e tanto altro ancora era la foresta, l’ aveva capito solo in quel momento, svegliandosi dal sogno.



Silvana Poccioni 21/09/2011 19:16 1201

Creative Commons LicenseQuesto racconto è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons: è possibile riprodurla, distribuirla, rappresentarla o recitarla in pubblico, a condizione che non venga modificata od in alcun modo alterata, che venga sempre data l'attribuzione all'autore/autrice, e che non vi sia alcuno scopo commerciale.
I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«La vita, secondo la più conosciuta e antica metafora, è una foresta, in cui ci aggiriamo smarriti, senza comprenderne mai veramente il senso. Ma è anche paragonabile ad un sogno (incubo?), da cui ci risvegliamo, un giorno, e ci pare di non avere più alcun dubbio. Sarà poi così?»

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