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Responsabilità sociale
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Mesto è il tuo guardo

Sociale
Nel cor dell'arena, mesto poni il guardo
al cospetto del baldanzoso carnefice
in vesti strambe, dal sorriso beffardo.

Costui della fine tua ne sarà l’artefice,
si move a te innanzi, contrappon la testa,
punta la tua mole col suo indice.

un ghigno in viso, rivolge l’occhio e resta
con piglio giocondo, si move frattanto
danza e agita la cappa con mano lesta;

ardito, sferza la lancia sul tuo manto;
del leggendar gladiator ne emula le gesta,
ad ogni piaga sul tuo corpo, vanto

se ne fa sul palco, tra la folla in festa,
in delirio al mirar di un tal affranto.
Resti solenne, solo, nel cor di codesta

rena, a fissar cupo col volto in pianto
il giullar divertito a scuoiar le tue vesti.
Ti muovi contro, ma solo un momento

a cercar la cagion dell’ira, sì t’appresti
a caricar la cappa del gradasso,
e col cor di collera colmo, gli assesti

un paio di capocciate sul drappo rosso;
ma niuna d’esse giungerà al suo scopo;
anzi, da un paio di dardi in più, sarai scosso.

Il sangue sgorga dalle tue spoglie; il loco
donde le tue zampe lascian impronta,
di color rosso si impregna non poco.

Siccome a specchiar una sì tal onta,
funereo, Il ciel azzurro si tinge nero,
e una tetra aure l’aria sormonta;

Non molli mai, audace guerriero;
l' affanno, di vigoria ne spezza cotanta,
ma giammai l'alma del condottiero.

La forza nel tuo corpo non è più tanta
la tua enorme mole claudicante,
fissa nella sabbia, quivi si impianta;

e aspetta invano che un imponente
fil di vita che dal ventre tuo fuoriesca;
pronto a sferzar la testa forzatamente,

e col piglio affranto, e come un esca,
resti inerme a mirar il tuo spauracchio,
che danzando, il popolano strepito s'adesca.

Anzi volto alla platea, cerchi l'occhio,
che delle piaghe tue si incupisca funesto:
resti impietrito, frattanto, come un fantoccio.

Niuno sguardo t’appare un che di mesto,
giacché dalla tua fazione, anzi,
non cogli l’ombra d’ un proselito gesto.

Ma d'improvviso un muggito avanzi,
un fil di ira la tua mole resuscita
che tanto tanto martoriata fu dianzi.

Sicché un bellicoso fervore, ti ridà la vita
e del tuo titanico corpo diventa parte,
spingendoti, con collera che esorbita,

sull' artefice della tua improba morte;
ma, ahimè, che triste pusillanime legge,
ancor ti toccherà il peggio della sorte:

il giullare i tuoi smunti colpi sfugge,
e l'ennesima cuspide velenosa e maligna
al tuo vermiglio corpo arruffato infligge.

il tempo corre e la rena si impregna
e s'impressiona, via via, in modo ulteriore
di questa invereconda tragica rassegna:

rosso sangue, amare lacrime, marcio sudore
sono i sgargianti colori che in un ammasso
zampillano inesorabili, dal tuo avvilito cuore.

Intanto degli atti siamo giunti all’ultimo lasso;
il tuo corpo martoriato, oramai malamente,
invano riesce a compiere un che di passo.

Il nemico innanzi a te, inesorabilmente,
sfascia la spada dalla muleta, e con far avido
sta in cerca, dell’ultimo affronto culminante.

con affanno e Col cor di supplizio gravido
resti immobile in tempra d’acciaio, pertanto,
senza timore, ferreo, collo spiro impavido.

L' ultimo muggito rintona uno stridulo canto,
il tuo corpo tartassato si move perennemente,
con incredula energia dopo tanto tormento.

Ad un mercante col suo claudicare incessante
a cagion del fardello che sulle spalle sostiene,
sì si confà il corpo tuo, scalmanato e ansimante.

Sulle zampe, il corpo ritto appena si mantiene,
e alla mente tua, in un baleno, un amalgama
di immagini, in un turbine confuso sovviene.

Ecco l'ultimo spunto che il tuo voler proclama!
Il carnefice punti, forsennatamente ancora,
ma ei lesto, in un unico fulmineo gesto, la lama,

al tuo cor afflitto, umiliato a dismisura,
affonda con cinica dedizione, prontamente
senza indugio, né pathos, né cura.

Cadi, come un megalite, pesantemente,
calcinacci e povere, nel tuo giaciglio eterno
ti accovacci, pria fragoroso, poscia soavemente;

non più dolore, né nemiche urla, né inferno
le tue spoglie sul lastrico dovran soffrire;
né più sberleffi, né infamia, nécrudo scherno

il tuo spirto angariato dovrà giammai patire.
Il silenzio impone lo scettro dell’ imperatore,
ma giusto sol pria che si possa ancora sentire

il gaio delirante tripudio dagli spalti cominciare.
Tu, tacito senza spiro, immoto nel tuo sangue,
il tetro dipinto nella sabbia finisci d'adornare.

Temerario mastodonte, caduto esangue,
lotta senza speme, integro l’onore,
giammai la tua fine, il tuo coraggio estingue.

Dagli spalti, la folla, con dedito ardore,
tra gli allori pone il suo eroe con le sue gesta,
contrapposto al silenzio del tuo eterno sopore

che pare strillare sì tanto, che il boato di festa
appare in toto siccome ammutolito
al cospetto di quell’ imago quiete e funesta.
Wal 23/02/2008 11:37| 1360

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.



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