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Mai nella mia vita,
mai -vano è negarlo-
mai ho imparato appieno
l’arte del solfeggio.
E tale inammissibile lacuna
mi procurò nel corso dell’infanzia
rimproveri, minacce ed improperi
di intensità e fattura variegate
che, scandalizzata, mi elargiva
la giovane maestra, il martedì,
quando veniva accolta in casa nostra
con reverenza e onore, come suole
verso i depositari d’arte,
di scienza e religione;
veniva, si diceva, a dar lezione
(privatamente) a me, di pianoforte.
Dirò che i primi tempi, anzi, apparivo
bravino e diligente;
una promessa -io, infimo seienne-
nel diteggiar componimenti,
facili, certo, se non istupidenti,
di Bartók e di Clementi.
La mano andava bene, morbida e lieve;
mai rigida! ché pare
sia tale scellerata posa
ben più nefasta di un peccato grave.
Col volgere dei mesi -ahimè, però-
la vocazione concertistica scemò
con andamento inversamente esponenziale
al metronomico battere del tempo.
Di fronte a minuetti e sonatine cui non bastava più
quel po’ d’istinto e orecchio
che forse in fondo avevo pure avuto,
la mia carriera musicale,
senza troppo star lì a cerimoniare,
di colpo terminò.
Rispetto all’energia che sarei stato in grado di esternare
ben altro impegno era richiesto:
ore di studio giornaliero,
costanza, ostinazione
e poi (maledizione, questo è il peggio!)
quel famigerato odioso,
ma -sembra- indispensabile
solfeggio.
Alla base del danno, v’era -sia chiaro-
difetto sostanziale di lettura
già in chiave di violino:
finché le note procedevano contigue ad intervalli regolari
riuscivo a starci dietro (un po’ bluffando) con un errore o due di tanto in tanto.
Ma il sopraggiungere improvviso e malandrino
di crome, semicrome e altre stranezze,
in un punto del rigo che a me appariva -nella più cauta ipotesi-
casuale e dispettosamente fuori posto,
bloccava tosto il ritmo, peraltro già piuttosto incerto,
del mio cantilenare in quattro quarti.
Comunque sia, con onestà lo ammetto,
le urla che, nell’insegnante, la faciloneria
del mio farfugliamento richiamava
erano -è indubbio-
giuste e lecite per lei che
in quel frangente doveva ribadire e celebrare
la grande nobiltà dell’arte musicale
di fronte ad un marmocchio che beffava
l’opera magnifica e possente
di Béla, Muzio e compagnia cantante.
Io, quindi, mi trovavo nell’impiccio
di chi deve apprezzare
qualcosa che per nulla l’appassiona (anzi l’annoia),
ma -temendone gli effetti-
non vuole dimostrare apertamente
tale disinteressamento più totale;
però
per buona educazione neanche vuole
dir cose false ad un adulto.
Quindi, quando la giovane maestra,
di nuovo constatata
la mia impreparazione eccezionale
nel decifrare il pentagramma,
mi chiese stupefatta: “Dimmi, si può sapere
durante questi sette giorni,
quanto hai studiato?”
io le risposi, a voce bassa e capo chino:
“dieci minuti,
forse anche meno”.
Di questo almeno sono fiero:
che non mentii ma dissi il vero. |
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