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Fermo nell’avvenire,
v’insediaste con furore;
innalzaste i vessilli
e questi, innalzarono voi.
Qualcun trepidava,
qualcun venerava
e il Vate sognava
e oltralpe tonava.
Sovente han tutti ab antiquo levato
i propri vessilli:
ancor son mesti gli opposti
e divisi gli inerti.
Risolutezza, mera disciplina,
buona fede: delle tre
voi foste maestro, indi severo andaste
in virtù di lor mutando,
ma è curioso ch’ognun possa veder
giusto il proprio intento,
e che dire di questo? Che dir
quand’esso vale il mezzo?
Non foste il solo a crederlo,
è un fatto assai reiterato.
Questo loco,
vie più avverso che materno,
sempre storto sarà, per taluni:
nessun vede il male! No...
mai vi sarà una compiuta misura,
ma una misura prossima per certo,
ad un ideale e a forme d’angheria;
orbè, la minor forma qui va tratta.
E questo abuso della libertà...
vedreste, non senza rammarco,
ch’è il confino pel buon senso.
Se ben posati furon
dai nostri cari,
omai improferibile,
siete presso che come gli erti marmi:
resi non son gli onori
ai Cesari tutti,
per lo meno, giammai unanimemente.
Forse l’ultimo sarete?
Temprato dal nome vostro,
sì timido e scolpito,
lontano è l’acuto ventennio.
A Giulino, non suonò
un violino: per l’ultima volta,
quel pomeriggio d’Aprile cadeste.
Appena un drappello, un cancello;
una folata di rosso trascese
i littori, e Dio solo
sa, quali cancelli s’apersero,
al momento del rapido fuggir.
Oh, quale scoppio
a noi fatale,
può esser sentito,
più del dolore
che perde un amore,
un respiro o un cammino?
Voltarvi non poteste,
tirando diritto
dal tenace passato, al futuro
dei vinti; e i gravosi oneri, portati
alteramente dal possente verbo,
quivi ebbero fine, anzitempo
volgendo, a una cortina
di colpe, la lunga sorte.
La piazza fu pel solito affollata,
come se muto aveste ancor parlato,
ma da una fune foste degradato,
da che lo storto mondo
si rovesciò, e dalla terra in fermento,
barbarie piovvero
come piombo dal cielo.
Chi fu così gentile,
da volervi sì comodo
e supino, non ritenne
l’esecuzione postuma bastevole:
damnatio memoriae. Si pensa,
che l’oro di Dongo sarebbe
in quelle passioni
mai sopite, oggidì custodito;
ed io presumo
che già avrebbero esaurito
intere miniere,
posto che a ogni riserva
redenta, essi intendano.
L’immobil tempo
è adesso oltre; ora,
l’inchiostro è in altre mani:
di mancini, o dei vicini,
tutte eguali. Ben veggio
volumi e volumi,
rimoti e venturi, che passan
verità inenarrabili; che tangono
qualsivoglia novo segno;
che lasciano i tanti quesiti
miei, dubbiosi. | |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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