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Qui par che mai niente abbia luogo;
sembro così vanamente proteso
a quelle luci,
e quando altretanto in me segue,
dinanzi, un’immago scura
vedo: ha voce s’io parlo,
sì come meco piagne
se lacrimo di gioia
o di dolor; nulla odo
qualor mi taccio,
ma se anche la mano a ella giungo,
sempre cupa non volge a questo guardo.
O mia unica e acerba diletta,
di questa interior solitudine
non mi capacito, e tu ben sai, sai
quanto mi senta inudito da noi,
da loro, da questo intorno.
Cerco, scorgo; mi domando,
donde arrivi quel buio sì profondo;
da quale silenzio,
sia pur dal nulla,
fuggo, grande a sufficienza
per sentir,
ma non per capir;
e ancor mi tormento:
ch’io stesso sia il segno curioso
d’un divin fato,
e non d’un mero caso?
Non ho rimedio alcuno;
me misero! Altro non ho
che un dolente sentor,
la cui brama non giudico proterva.
O forse, or non posso
rimembrar? Perché mai
qualcun vorrebbe entrare in questo oblio,
allorquando non può,
se ciò a scherno lo ha,
non amare il timor suo più antico?
Un dì girerai per certo; ecco,
spero di traversar lenti momenti,
onde negato non sia il viso primo:
il fianco tuo che già scorgo,
assai somiglia a quello dell’inizio. | |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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