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Tra nevi bianche e indomiti ghiacci,
qui, dove si lamenta ai fonti un lupo,
e invocando gli Dei, io m’appresto a un’arpa,
e mesto io canto i sibilàr dei fiordi.
Timidamente a questa Notte e ai fiordi
canti inauditi or io concedo all’arpa,
la qual qui n’ha doglianze come un lupo,
e tanto trema pel gelàr dei ghiacci.
Così canzoni sciolgo a questi ghiacci,
e ulula intanto da una rupe un lupo.
Queste son nenie delle valli antiche,
quelle che mi tramandano i Defunti,
e i nembi oscuri del ciel dell’inverno.
Udite, dunque! Io lamento all’inverno
le ghirlande sepolte dei Defunti,
e mesto giaccio alle lor tombe antiche.
Canto le doglie e le cantiche antiche,
e canto i reliquari dei Defunti.
Canto ai Vivi e ai Defunti,
e canto le canzoni, le più antiche,
canto quest’eco per le valli aprìche.
Meriggio fosco di Luna nel fiordo,
per i monti lontani un corno trilla,
e si lamenta a un arboscèl un tordo.
Geme lo Scaldo con l’arpa che strilla:
le canzoni dell’Ombre di Tuonèla,
e l’orizzonte che s’oscura; è lilla.
Urla il guerriero di cui l’alma inciela
quando spirando ghermisce la Luna,
e nel mar si risplende un’orba vela.
Ma una fanciulla nella sera bruna
alle pietre d’un monte ammira in pianto
l’ima convalle e la tetra laguna,
e della Notte nel feroce manto
ella tempra una nenia, un tristo canto.
Canta: l’errante cavaliere biondo
che con l’addio l’abbandonava, e duole
nel seguìr le sue impronte, e il vagabondo
destrièr che fugge oltre l’ombra del Sole.
Lagna il Destino tremendo e iracondo,
e quasi morta cade all’empie viole,
e il cuor s’infuria e giace fremebondo,
palpiti infami come aghi di spole;
e si smarrisce l’occhio suo profondo
per l’ansie e nivee e sempiterne gole.
Ella ne piange e al mar indefinito
i vascelli ne scruta, e attende invano
il sovvenìr dell’Amore smarrito:
fors’egli si sta dinnanzi a un sovrano,
o forse pur combatte in erme lito,
con la Morte nel cuor, la spada in mano.
Allor costei qui prega l’Infinito,
e il suo messèr si lenisce lontano;
ed ella a un nembo arcano
e della Luna fioca nell’argento
d’Amor ne stringe un mellifluo lamento.
Rimembra l’ore del remoto addio,
e delle pene e degli strazi il fio,
e l’alba che s’ergeva, e il cavaliere
che baciàtola e in fiere
lente parole fuggiva alla guerra,
solitaria lasciàndola alla terra,
dove s’infranse d’un bacio l’impronta
nell’eco carca d’onta.
Ricorda l’abbandono, amaro istante,
il suo sguardo su quel del suo incostante
uomo di spada, e a rimembràr ha doglia
tremante come foglia.
Quest’è ballata di colei che muore,
colpita dallo strazio e dall’Amore.
Nel frattempo qui s’erge un Temporale,
e la pioggia si cade al suol norreno,
ed ella geme alle Valchirie: «Io peno!»,
e le lagrime versa al maëstrale.
Così gemendo ammira naufragare
un legno marinaro, e ai flutti irati
l’albe vele sommerge il nero mare,
la Runa estrema dei decisi Fati;
e ai stral lunari e timidi e argentati
ella pensa che su quel legno ei fosse,
il cavalier amato, e in tanta tosse
avvolta cade del ciel nell’opàle.
Grida Dönner, il Fulmine immortale,
e la grandine scende a un morto seno,
e il spento Amor già fu un fatàl veleno:
la cornamusa strilla il funerale.
Quest’è ballata di colei che muore,
colpita dallo strazio e dall’Amore.
Vespro di Morte nel fiordo svedese,
il bardo ne declama orba ghirlanda,
canto che più d’un giorno al ciel s’estese.
La salma giace tra rose e lavanda,
e sopra questa è il salce mortuärio,
la quercia sacra e spoglia e spasimanda.
Quest’è la nenia nel trillàr che vario
dell’arpa geme l’estremo Destino:
tra le nevi del fiordo è un reliquario.
Oh voi, Sublimi, che in Cielo il cammino
procedete, oh Valchirie, oh voi che meta
siete dell’alme, destriero ferino,
oh voi, Fanciulle, cui Morte s’inquieta,
abbiate di costei, oh! n’abbiate pièta! |
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