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Quest’è l’istante, l’attimo
tubercolotico
dei tetri Sentimenti,
dei patimenti,
del Fato inesorabile,
l’ora in cui sangue il cuore
versa al terrore,
la malattia dell’Anima
che geme e s’agita
che non so dove china,
forse a una spina,
cupamente al crepuscolo,
come al tramonto il Sole
muor sulle viole;
è il Tempo d’immutabili
doglie di femmine,
quando Iddio s’è perduto,
lo sconosciuto,
quando la Croce esanime
proclama eterna Morte,
la nostra sorte,
dei singulti che passano
torvi e frenetici,
l’ora dei folli canti,
d’insani pianti
che dall’occhio si cadono,
dall’iride malata
che giace orbata,
come Notte d’immobili
ciechi di tenebre,
nel petto ansioso e aperto
abbiam sofferto,
al labbro muto i farmaci
bevuti e singhiozzati,
i freddi Fati,
quel che si scorre, il vivere,
l’incauto attendere
l’ambita guarigione
d’una passione,
e i Tempi si compiacciono,
e fuggon pei ruscelli
dei tetri avelli.
Allor irremovibili
i bronzi squillano
le lagne dei defunti,
veli trapunti
di nudo ferro e spasimo,
la malattia,
la Poësia
sono tutt’uno, e scorrono,
e s’accompagnano,
e all’orizzonte muore
debol l’Amore,
e noi... e noi, i miserabili
siam loculi viventi
in preda ai venti,
siam gli spettri spasmodici,
gli eterni epìgoni,
i vermi della fede,
caduti al piede
del veleno di Sàtana,
il ventre putrescente
del Ciel vivente,
la tosse ombrosa e tisica
degli aspri gemiti
che in mesto e crudo pianto
al camposanto
curva scioglie la vedova,
del Fato nostro adorna,
furiosa Norna.
È il Tempo degli Spiriti,
occhi deïstici,
morbo della Ragione,
senza canzone,
dove son vani i rapsodi,
i parroci e i profeti,
dove gl’inquieti
Orchi, i Demòni sorgono,
donne seducono,
uomini il sangue a terra
spingono in guerra,
per l’impotente nugolo
che minaccioso gira
in negra spira.
È l’ora delle tremule
febbri malariche,
di stare stesi a letto,
dubbio e sospetto,
come un scialbo cadavere,
i verdetti aspettando
e spasimando
del fuoco incontestabile
truce degli Inferi,
è il momento dei smorti
animi assorti
nei sepolcrali e lugubri
cancelli, le candele,
cero infedele,
l’attimo d’urla e d’orridi
sospiri spastici,
d’esser mangiati inermi
dai nudi germi
delle selve desertiche,
di urlare e di soffrire
all’avvenire,
dove regna l’incognito,
l’inconoscibile,
malattia che si vive
nelle corrive
Furie fatal del Dèmone,
morbo spirituäle
dell’Ideäle,
una vampa che flebile
gemendo spasima,
una ragna sdrucita
d’incauta Vita,
quando nell’ira d’Ecate
strappa del spiro il sajo
all’arcolajo
la Dea, geniàl Proserpina,
Ade salmodico,
quando giova la strega
l’aspra congrega,
la setta dei diabolici
intrugli della scienza,
fioca demenza.
Malia oscura e anonima,
serpe satanica,
la nostra stirpe cade,
le tombe invade,
e viene tardi il medico,
non ha la medicina,
e si declina,
e i mari delle lapidi
tosto ci inghiottono,
e in nero e tristo dòmino
ci stringe il Diavolo,
in questa sofferenza,
senza coscienza,
siam destinati a un tumulo
di questi urlanti ossami,
secchi fogliami.
Sàtana egli è, è Lucifero
il Distruttore incauto,
lingua di vipera,
voce di flauto...
È giunto il crudo, il Mostro,
spalanca il rostro.
Ma in tanti e folli brividi,
d’intorno giace un farmaco:
a Te, o Croce, mi prostro,
e sono atòmo,
e Ti contemplo, o Dio,
e sono salvo,
e sono domo.
Ed ecco l’Uomo. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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