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| Trista e inquieta e crudel mi viene e al core
e all’alma e mesta e stanca questa doglia
che di larve infernali e pur d’Amore
nel tacito sognar fatal germoglia,
e in questo istante estivo m’è dolore,
voce e orrenda e strillante, e secca foglia,
e in questo ansioso e lungo dolorare
Poëta vado e tosto a naufragare,
e or che viene la sera e ‘l ciel s’oscura,
e flebilmente ‘l sonno a’ fior si mostra,
e a’ campi e a’ boschi e a’ rivi, e la Natura
nel riposo sen giace e vi si prostra,
la mente mia si lagna e nella cura
si tace, e lenta piagne e più non giostra,
e mentre ‘l Sol si muore un mesto sogno
a un nembo canto e all’arpa, e mi vergogno,
e se i pioppi e i carpini e queste pietre
e queste terre antiche e questo fonte,
e se i fanghi e le viole e fresche l’etre
e l’orba selva e i salci e l’orizzonte
or non odon un son di queste cetre -
di cui l’eco ne corre in fino a un monte! -
m’intenda almen la Musa, e una fanciulla,
di quercia un volto sacro, o gridi ‘l Nulla!
Un dì n’erravo e a un core io volsi ‘l viso,
e in tra’ vini e le danze - ahimè! - mi piacque,
e fu una giovin dama, e io fui conquiso,
e al seno suo e gentil l’occhio mi giacque,
e io sentìa avvicinar un Paradiso,
ma ‘l labbro mio e pudìco e in ansia tacque,
e immantinente ‘l torvo e reo Destino
mi fea nel cor, nell’alma adulterino;
e questa prisca donna a me parlava,
e diceva di lunghi e freddi pianti,
e in lei la somma Fede s’infuriava
e dianzi a’ giorni suoi remoti e affranti,
e più dell’Ebe colta a me ispirava
i sogni e l’alte spemi e i lieti canti,
e d’Elisèi vestiva - oh Campi belli! -
e i spiri suoi mi fûr freschi ruscelli.
Ma l’ardir mi mancava, e passò un mese,
e venne ‘l tempo santo del Natale,
e pur sapendo forse esser offese
le apersi ‘l core muto, e schiusi l’ale,
e ‘l spirto osceno e folle fu palese,
e allor la pinsi o Musa, o Dea immortale,
ed ella allegra e schietta sorrideva,
scansò l’Amore mio, e ‘l cor mi piagneva.
Così in vergogna insana io la fuggiva,
e al freddo verno piansi, e urlavo a Iddio,
e soffocato giacqui, e mi feriva
quest’empia cura arcana al petto mio,
e sallo ‘l Ciel soltanto ch’io soffriva -
e quanto! - oh Fato avverso, e bruto e rio,
e quand’ella dappresso ancor n’andava
io silente e solingo ne tremava,
e al dì santo e seren della Patrona
io la vidi e piagnevo, e in tra’ dipinti
la sognavo in segreto, e all’ora nona
tornato al tetto niveo gli alti istinti
d’un Poëta infuriavo e l’arpa prona
a suoi sonavo e biondi capei avvinti,
e udii una voce in Cielo: «Non è indarno!»,
ma scontento ‘l sorriso m’era, e scarno;
e venne alfine e presto Primavera,
e nulla più io sapeva di costei,
e niente le dicevo allor che sera
guardammo insieme gli astri e i loro Dei,
e nella Notte fresca e quieta e altèra
s’estinsero anche i sogni, e gli Imenei,
ma in agguato sen stava l’egro Fato,
e l’aprile mi scorse innamorato.
Men stavo quieto e arreso e all’aspersorio
qual fossi un morto antico giacqui, e spensi
le spemi arcane e allegre, e quest’ustorio
Amor soffrente e oscuro, e gli ansi incensi,
ma costei si mostrava e all’Oratorio
la Tempesta iscoppiava, i nembi densi...
e Tu beffavi forse? Tu, oh Signore?...
Chi mai si fece giuoco di quest’Amore?...
La vidi e rosea e bianca e giovin tanto,
e gentil mi parlò e al mio core immoto
udii la spene amata, averla accanto,
e a Iddio e a’ Cieli e alle nubi io sciolsi un voto,
e finiva - ma indarno - l’aspro pianto
all’occhio suo fatal qual fior di loto,
e le scorsi le man e più un anello
mirai, e infelice e allegro gridai e bello,
e nascevami in cor l’istesso foco,
e all’alma sua solinga allor parlai,
e prima muto fui, e poi e lento e a poco
un detto arcano e dolce sussurrai,
e più placava ‘l corso e venne fioco
l’ombroso e inquieto passo de’i miei lai,
e venne Pasqua e santo ‘l tempo scorse,
e lei m’amava - oh sogno! - e l’alma forse!
Mi fu come un’aurora, e come un Sole,
e m’era l’alba Luna, e m’era speme,
e l’orizzonte mi pinse - oh allegre fole! -
e sognavo abbracciarla, esserle insieme,
e m’era un campo lieto d’alme viole,
un volto... un seno... un core - e l’ansia geme! -
e ‘l donnesco sorriso m’era un strale,
la guancia e molle e snella - oh l’Immortale! -
e io parlavo a costei, e ‘la rispose,
e dissi e sogni e detti, e mai intessuti,
e sognavo donarle e baci e rose,
istanti ansiosi e inquieti e ormai perduti,
e io cantava per lei or l’armonïose
ballate allegre e dolci co’ miei liuti,
ma presto questo fresco e vivo azzardo
ne ruppe e tosto e bruto un reo beffardo.
Ahimè, ne urlava in Furie ‘l vil Destino
che in fino all’are sacre mi percosse,
e io tremava e piagneva e fui meschino,
e malato ne venni, ed ebbi tosse,
e ‘l diniego fatal e femminino
alfin nel petto lasso or mi commosse,
e pur Iddio scorgea la sua viltà,
ma nulla ‘l Ciel poté! Oh Fatalità!
Non m’amò la fanciulla, e molto piansi,
e pur uscimmo un giorno, e a Notte fonda,
e ‘l dolore del cor taceva e gli ansi
istanti fûr crudeli, e l’iraconda
e cruda stella - ‘l Fato - non infransi,
ma contemplai la bella e mora e bionda,
e a Iddio sciolsi una prece, e in fin a Luna
pregai sì vanamente altra Fortuna.
Ell’era meco alfine, e camminava
agli astri dolce e quieta, e a me vicina,
e m’era a un passo e presso, e io la mirava
e m’apparve una Musa e pur divina,
e un sogno urlò dal petto, e m’oscurava
un strale avverso e vil, sorte meschina,
e in sotto ‘l volo oscuro de’i rapaci
ell’era a un passo ansioso... d’almi baci!...
E chiamàvami allora un uomo blando,
e fu un onore udir, fui cavaliere,
e quasi in lei qualcosa stava obliando
un flagel del Destin, le brute schiere,
ma indarno al ciel alzai l’eroico brando,
le sorti infami fûr fin troppo altère,
e questa veglia e arcana passeggiata
mi svelse e ‘l pianto osceno e una ballata.
Giurai tacerle ‘l senso e ‘l core affranto,
e ‘l Destin me la impose sol amica,
e resistere - ahimè - fu vano e tanto
siccòme al Sole e al campo fa la spica,
e più non la vedevo a me d’accanto
spaziar di sua beltà una stella aprìca,
e le lettere or scrivo - e a lei! - e le imploro
e silenziosamente ‘l capel d’oro!...
Quest’è lo strazio orrendo, e ‘l mio diärio
e scrivo in lasso e prego - e vanamente! -
e a’ versi dono un pianto e all’avversario
e bieco Fato ‘l duolo, e la mia mente
la sogna: è d’oro, è argento, e rame e bario,
fantasima d’un core - e sofferente! -
e in questi vani detti e van solfeggi
ascolta, oh Musa, ancora... e m’odi... e leggi!
Tu se’ l’indarna speme, e ‘l mio sorriso,
come un lampo m’appari, e se’ mia Vita,
mio Tutto e santo e buono e Paradiso,
sentier d’un’alma inquieta e pur smarrita!...
Oh potessi di nuovo ‘l tuo bel viso
mirar... e in sogno un bacio alle tue dita!...
Sarìa men duro ognor aver dolore...
Ma sarà questa l’ultima e d’Amore?
Pietade! Un uomo muore,
ei t’amava un istante, e tu se’ lieta,
ei t’erge a Dea immortale... Egli è un Poëta! |
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