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In quest’ansia mi seggo e al dolce Sole
nel cielo azzurro e bianco ‘l guardo volgo,
e a’ pruni falbi e quieti e alle viöle
questa brezza del giorno al viso accolgo
e del fringuello le tenere fole
onde d’inquieto lasso più non dolgo,
e a un immobile nembo e pio e soäve
or ne dedico allegro quest’ottave.
Allor mi splende dianzi la campagna
‘ve lo zefiro fresco soffia mite,
e la rondine in suso m’accompagna
a’ campi e a’ rivi e a’ tralci della vite,
e delle rane n’odo l’aspra lagna
e l’usignuol cantar da vie romite,
e i pioppi scorgo e i cespi e i fior di pesca,
dell’orizzonte lieto l’aura fresca,
e ammiro i scialbi boschi e gli arboscelli
e i carpini e le querce e i puri salci,
e sento i canti ariosi degli augelli
e ‘l vento cesio e calmo in sopra i tralci,
e in tra’i corsi leggeri de’i ruscelli
le ferree voci e amare delle falci,
e dinnanzi a una rosa ballerina
un carme canterò alla Lomellina.
Adoro, infatti, e lodo questo mese
che d’oro ancor si veste e di beltade,
e questo suol nativo e piemontese
‘ve sempre vivo mia giovine etade,
e queste verdi e immense e pie distese
‘ve germoglian splendenti l’arse biade,
e abbraccio all’occhio mio un dolce ciliegio,
della terra splendore e roseo fregio.
Mi giova tanto ‘l riso, e l’acque e i stagni
cari mi sono e le betulle antiche,
e l’ombre oscure e fresche de’i castagni
e del grano maturo l’alte spiche,
e vo’ che ‘l corvo negro pur si lagni
a queste sabbie in solchi e dolci e aprìche,
e d’in sulle ninfee e in su’i cereäli
del Sole estivo splendono gli strali,
e alle ròveri brune e alle cascine,
e a’ cardi, e a’ rovi e a’ muschi e a’ rosei fiori
e alle foglie serene e ancor supine
volar ne intendo ‘l canto de’i pastori,
e colombe festose e femminine
a Iddio cinguettan liete i loro ardori,
e l’argento dell’acque va da’ un fonte
e lungi s’erge in neve un alto monte;
e in sul torrente si spiegan le vele
d’un veglio e arcano e grigio pescatore,
e l’amo è sempre a’ pesci e più fedele
come a canzon serena un cantatore,
e solare l’impronta è come ‘l miele
di beltade e dolcezza ‘l precursore,
e quieto e caro m’è tal meriggiare
nella gioja fatal di questo mare.
Allor n’ammiro i campi e l’ansia roggia
e le viole selvagge e i rivi tersi
di cui alle ripe negre e pien di pioggia
vien gentile ‘l desio - e su lor! - sedersi,
e ‘l cardellino in piume che s’appoggia
a’ rami in fronde fresche co’ suoi versi,
e bacio ‘l vago corso dell’Arbogna
come un pastor lambisce la zampogna,
e ne scorgo rugiade in sul sambuco,
e in sulle foglie vive del nocciòlo,
e in su’i fiori volar ne veggo ‘l fuco
e a’ nembi i storni allegri e lieti al volo,
e in sulle spine delle rose ‘l bruco,
e la rondine in ciel ‘ve mi consòlo,
e appen finita l’alta primavera
la campagna di gaudi fia foriera;
e i suoi ciottoli stanno all’erbe misti
‘ve ‘l Sole splende e scialbo col suo raggio
e pria che tanto ‘l storno al rivo disti
un fonte ‘l bagna tosto in sul villaggio,
e melliflui mi sono i peschi visti
che danno ‘l tondo frutto avvinto ‘l maggio,
e le nubi mi sono un bianco vello
che Iddio ne pinge in ciel col suo pennello.
Così - e giuso in tra loro - or veggo un ponte
cui rocciosa la pietra fa ornamento,
e rude sembra e veglio e in mesta fronte
l’errar accoglie e ‘l belo dell’armento,
e questa rozza roccia intende l’onte
dello zefiro fresco - un giovin vento -
e l’anitra silvestre batte l’ale
e canta al vecchio tòn d’un Temporale,
e stral di stella estiva scorgo e quieto
brillar li ammiro sempre in tra le fronde,
e contemplo alle ripe ‘l pio canneto,
del granturco le spiche e aguzze e bionde,
e muto e in requie sento in sul pineto
che la brezza del giorno va e s’effonde,
e al guardo all’acque trovo un svelto pesce,
e in sotto ‘l pioppo antico l’egre vesce,
e queste dolci imago son di giugno
‘ve ‘l nugolo ne splende in vampa etnea,
e ha una fanciulla in man di fiori un pugno
e la primula in spasmi e la ninfea,
e a’ piè d’un lasso e bieco e smorto prugno
cresce raggiante un viso d’azalea,
e dell’iris selvaggio sta l’inchiostro,
tossica preda d’un formido rostro.
Ma quel che bello è più vien colla sera,
e coll’ora del vespro - e taciturna -
quando a’ nembi ne viene l’orma altera,
vano tramonto e doglia di notturna
forma, e ne fuma come una teïera
d’infausto Sol la luce amena e diurna:
nell’orizzonte pinto d’alma rosa,
una nube bianca e pia, una nebulosa;
e l’acqua tersa al fango e la sua baja
che al ciel ripete alfin di non dormire
scintillan fresche al vento e la risaja
nell’infinito suo ne vuol fuggire,
e lontano e morboso un cane abbaja
‘ve i greggi suoi ne vuole sì assopire,
e in giorno e in Notte è dessa, quest’Estate,
aurora e Luna pie, e spiche dorate. |
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