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Sto in sull’ellenico
mare che dorme,
lungo la spiaggia
che quieta mormora
di sabbia informe
e m’incoraggia;
e voglio tendere
ai Cieli greci
un inno sacro
a questi valichi
ove le preci
tingon d’alacro!
Se ‘l guardo al morbido
tuo labbro poso
come sognando
in cieco spasimo
pallido e ascoso -
quasi beändo -
se sento in animo
al core un morso -
gelida stretta -
che ognor mi lacera,
se in questo corso
ti vò diletta,
se mi solletica
questo mio petto
tra ‘l gaudio e ‘l duolo,
come se m’agita
l’orrido e schietto
vento d’un molo,
se muto un incubo
tetro t’opprime,
quando i miei sogni
folli t’assediano,
Musa sublime,
‘ve ne vergogni,
se interminabile
grida un silenzio,
quasi fatale,
quasi colpevole
come l’assenzio
d’un maëstrale,
come la putrida
sembianza amara
del mar irato
l’alba salsedine,
se bella e chiara
ti pinge ‘l Fato
che va, e irascibile
or m’assassina,
se nel mio core
sento che destasi
una ferina
doglia d’Amore,
o Musa, ascoltami,
va’... t’allontana,
lasciami in pianto,
tosto dimentica
questa mattana
di questo canto,
scorda la lurida
d’un reo poëta
arpa che sogna,
tra codest’anime
come un’inquieta
parca zampogna,
lasciami misero
a meditare
su questi eventi
che i Fati irridono
come del mare
i sali ardenti,
fuggi quest’attimo
che mi fa folle,
quando n’ho sete
del tuo gradevole
sorriso molle -
le guance liete -
quando n’ho fregola
d’un sol tuo detto,
d’una parola
fatta impossibile
al mio cospetto,
un’ombra sola,
e questo rapsodo
non far che torni
poiché corrode
la tua inquietudine,
le notti e giorni
con crudel ode.
Lasciami in lagrime,
o Musa amata,
poiché m’è Sorte,
sono un patetico
uom che t’ha odiata
più della Morte,
che poiché giovine,
poiché coëva
ben io t’odiava,
senza conoscere
quel che piangeva,
quel che t’urlava.
Ricordo in brividi:
quando bambina
mi salutavi
col labbro timido -
guancia divina -
e mi guardavi
coll’occhio tremulo,
col guardo mesto
ove mi donno,
ed io insensibile,
torvo e funesto -
cieco nel sonno -
come un fantasima
voll’io ignorarti,
passai incurante
dianzi al tuo gomito,
voll’io scansarti...
Ti son amante!
Non mi dicevano
quel che soffrivi
gli occhi gementi,
le braccia rigide
che non aprivi
se non a’i venti,
che fosti vittima
del Fato inviso -
com’io lo sono! -
che fosti un Martire
del Paradiso
pel mio perdono,
che ‘l tuo desìdero
era la gioja,
esser compresa,
fugar la gelida
e trista noja,
oh vilipesa!
Sì! T’amo in tremiti
pel tuo dolore,
per quel che piagne
nel seno morbido
tacente core,
pelle tue lagne,
pel melanconico
volto che tace,
che in pianto ride -
beffa nostalgica -
d’un’ansia pace
che mi conquide,
pe’i tuoi patiboli,
quel che tu duoli,
muto tormento
che intende ‘l rapsodo
per questi suoli
nel cor del vento,
pella tua lagrima
che scende muta...
che ti discerno,
la veggo scendere,
e t’ho perduta,
s’apre l’Inferno!
T’amo; e in tal scrivere
sento ‘l rimorso,
truce mi sbrana
tutti i miei palpiti;
amaro è ‘l sorso,
la sete insana...
t’amo; e ne lagrimo
poiché vò almeno
esserti amico,
sono un platonico
che in sul tuo seno
altro non dico,
ti bramo l’Anima,
oblio la carne,
sogno ‘l tuo spirto,
che al mio ne scalpita
come le scarne
spine del mirto,
vò che le Nuvole
che tanto prego
mi dian l’onore
d’andar incognito
oltre ‘l tuo niego,
oh nobil fiore;
e sogno in spasimi
che ti confidi
ad un che vuole
fior del tuo Spirito,
amici lidi
colmi di viole,
pieni di primule,
come la Vera,
come ‘l bel maggio
che in sulle porpore
rose ne schiera
come un miraggio,
poiché, oh Calliöpe -
celesti risa -
se’ l’essenziale
di codest’arida
mia Vita irrisa,
se’ l’Immortale
amata incognita,
sguardo del Dio
che cerco ansioso,
oltre ‘l nostalgico
sognato addio
nel mio riposo,
se’ forse l’Angiola
che mi dischiude
i Ciel bramati,
portando ‘l Calice
che non m’illude
siccome i Fati.
Forse son stolido,
bramo ‘l tuo Bene
più d’ogni cosa,
più della formida -
che grida - spene,
spina di rosa,
poiché tu meriti
lo stral del Cielo,
poiché demòne
il so dall’Erebo,
bollente gelo
di pia passione,
poiché se’ l’unica
Musa che regna
tra l’Ebe e ‘l vino,
voce che sibila
e che s’ingegna
dell’Uno- Trino,
poiché ignorandolo
mi dai la Fede,
la Provvidenza
che chiama un diavolo
presso al tuo piede,
la mia coscienza;
ed or, oh nobile,
ch’hai l’ode letto,
tal frasi fatte
scritte nel spasimo
presso ‘l tuo aspetto
bianco di latte,
dà che desìdero
quel reo pugnale,
straziami ‘l core,
fammi cadavere,
altrove l’ale
volgi in furore,
dammi quest’ultimo
pegno, la Morte.
Tu non morrai,
Musa se’ e docile.
Ma la mia Sorte
compir dovrai!
Uccidi ‘l fascino
di questi versi,
del canto mio,
svanisce l’incubo,
gli occhi son tersi...
Oh Musa! Addio! |
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