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È presto ‘l vespero,
sòna campana
l’Ave Maria,
vienmi una nobile
orma d’arcana
prisca Poësia,
viene gradevole
una signora,
giovine e molle
all’aura strabica,
e m’innamora
come una folle
brezza d’un attimo
di bel mattino
quando ritorna
l’astro che illumina
ogni Destino
e l’orbe adorna.
La scorgo al vicolo
sotto la lampa,
è bella e bruna,
bianca nell’Ecate
è la sua vampa
come la Luna.
Come una rorida
d’alba una rosa,
fresca passeggia
sotto una nuvola
che trista e ansiosa
non più lampeggia.
La chioma in riccioli
lunga e castana
questa fanciulla
ne tiene - e in brividi -
come una vana
ombra di Nulla,
e dolce e tremula
sotto la pioggia
alza l’ombrello -
orma di tenebra -
e da una roggia
ode un fringuello.
Ella che volgesi
forse m’ha scorto,
m’ha letto ‘l core
che svelto palpita
ove son morto
di tanto Amore,
mi scruta l’anima -
impallidisco -
lenta sorride
dal labbro timido
su cui svanisco
e che m’uccide;
mi vede pallido,
soffrente e scialbo
piucché d’argento
qual piombo in panico,
d’in su’ un prunalbo
ne intende ‘l vento,
ammira ‘l cenere
dell’orizzonte
ove sta ‘l lampo
che fiero spasima
e la mia fronte
senza più scampo.
La guancia in porpora
a me si muta,
non so che dire
a questa Najade
forse perduta,
m’odo morire.
Tremo e n’ho i brividi,
ella mi guarda
come rapita,
sente i miei palpiti
come maliarda
della mia Vita.
È bella è docile
come una viola,
è una saëtta
questa sua immagine
che mi consola
e che m’aspetta,
e rosea e giovine
e snella appare,
sembra una Dea,
sirena all’alighe
del greco mare,
una ninfea,
e in miele e morbido
giace ‘l suo seno
nel fazzoletto
al collo pùdico,
come un veleno...
come un diletto,
e attenta e immobile
forse m’origlia,
dall’occhio bruno
mi scruta i fremiti,
batter di ciglia
che fia più d’uno;
e ‘l cor mi s’agita,
non è più domo
come in passato -
pria del suo fascino -
e sono un uomo,
e sono amato.
La mano è candida,
alto è ‘l sembiante;
l’ammiro e mentre
scruto i suoi gomiti -
occhio d’amante -
miro ‘l suo ventre,
le guardo l’iride,
l’ansie pupille
fatte d’ardore
come meteöre,
sono faville -
l’odo - d’Amore,
son Cieli ed Angioli,
Quei che n’avvera
tanto sentita
di sterili attimi
la mia preghiera
spesso smarrita.
Ma poso indocile
a un bel suo palmo,
scruto e m’acqueto -
n’ha un pegno all’indice -
tosto mi calmo,
sono irrequieto.
Ella n’ha spasimo,
pur volge altrove,
non sono amato,
e piango e làgnomi,
e mi commove
un tristo Fato.
Or che sto in lagrime,
adulterino,
quest’ansio core
forse mi strangolo;
e tu, Destino,
e tu, Dolore,
mi fate all’anima
tante irrisioni,
voi mi beffate
siccome un Dèmone
che le passioni
m’ha sempre orbate,
come una fregola
di vano vischio
che più si svelle,
e vo’ e mi soffoco
del vento al fischio!...
Oh bianca pelle,
oh squame candide,
di questa scialba
Notte la Luna:
guardate ‘l rapsodo
che in fino all’alba
sogna la bruna;
ed or se aggràdavi,
se avete pièta
di questo core,
che i spasmi cessino
d’un’alma inquieta
di vano Amore!
Ai tabernacoli
d’un’ansia chiesa,
tra gli arsi ceri,
tra’ i soni d’organo
mi si palesa
ella; e mi feri,
tu melanconico
tristo peccato,
tu che m’hai colto
come un adultero
fiore spezzato
che non fia assolto,
qual imperterrito
rio peccatore,
quando Matteo
ne legge ‘l parroco,
sclama al Signore:
«In Gloria Deo!»;
sento gli spasimi
d’un core impuro,
cerco vederla,
sempre rabbrivido,
e nell’oscuro
sembra una perla,
è come ‘l stabile
fior della cera
delle candele
che ancor m’accusano,
sembra una sfera
di quieto miele...
e in tra’i bei cantici,
e in sul suo viso
vengon le pene
che mi dà ‘l Diavolo,
e ‘l Paradiso
fugge, e ‘l mio bene!
Ma pio e nostalgico
di lei nel core
sta un dispiacere
che non annovero,
forse d’Amore,
forse un dolère,
siccome l’incubo
del mio peccare,
e come un fior
di giovin primula.
Vien meno ‘l mare
del mio dolor! |
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