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Giunto l’inquieto vespero
dall’orizzonte immenso,
seggo in sull’alta seggiola
dal fior d’un mirto, e penso
e sogno e volgo agl’incubi
d’un tremebondo cor;
e oltre le terree tegole
e l’unte e fresche pigne,
e oltre le chete roveri
e l’alte querce e arcigne,
il campanil s’edifica
stretto tra’i nembi. Ed or
n’osservo alter l’acredine
de’i sacri bronzi appesi,
e ‘l tetto aguzzo e rigido
scorgo in su’i ciel sospesi,
e sento un son che vibrasi
lieve di molle ardir;
e veggo i negri nuvoli
che vanno a dargli al mento
un dolce bacio e un tenero
soffio d’inquieto vento,
e ascolto l’eco effondere
il tòn del suo frinir...
E allor da’i tetri sibili
scende un precoce gelo,
m’afferra ‘l cor e stringemi
le vene al cupo cielo,
e mi tradisce ai brividi
d’un irredento fiel,
e le campane sonano
a stormi, e un’empia furia
m’opprime altera e palpita
dall’ombre d’una curia,
e ‘l cruor mi ghiaccia e simile
l’invigorisce a miel.
Ma in sullo snel vestibolo
che bacia l’auree etesie,
laddove cresce l’edera
dall’alte foglie cesie,
presso le sacre cànapi
ove i suoi bronzi stan,
da opposte parti giacciono
due tedi in fredda fiamma,
grigio si torce ‘l cenere
tristo dal lor diaframma,
e queste spoglie colano
qual sangue e al suol sen van;
e quelle fiamme sembrano
messer a ischiena uniti
che truci vôn combattere
in cupi duel arditi,
partono! i passi contano
ma li trattiene un fil...
e più così non possono
voltarsi a brando alzato,
e un rio destin li ostacola
in sull’onor strozzato,
e i bronzi pur lor negano
un dolce e quieto asil.
Ed esse ancor mi sembrano
fors’anche amanti opposti,
mesti e lontani ed eremi,
ebbri di fieri mosti,
e un Fato avverso ed arido
non li congiunge più;
e le campan li tengono
lontan per sempre e spenti,
e son le caste vittime
che prede son de’i venti,
e vani baci chieggono
in nom di quel che fu...
e l’uom si lagna e giovine
chiama la donna, e indarni
sono i suoi turpi gemiti
miseri e mesti e scarni,
e la sua dama mormora
presso ‘l dormir del Sol...
Ed io sto male e lagrimo,
e tanto e tanto peno,
li veggo e ‘l cor mi suscita
l’umor d’un rio veleno,
e la medesma avvolgemi
Sorte che spicca ‘l duol;
e ‘l campanil m’è collera
d’un sogno altero, e muore
la dolce spera e tenera
d’un tenue e molle Amore,
e in sulla Notte io sanguino
e sento sol dolor...
ed or m’acqueto e piangemi
il ciel notturno e cieco,
e al mar d’un fior fuggevole
di requie allor mi reco,
ed esso è un sogno, un incubo...
vi naufraga ‘l mio cor. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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