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Come uno spettro che piange al sepolcro
il terreo palpito del cor d’un verme
vado errabondo... e affranto ed inerme
verso l’incognita fiamma d’Amor;
e mesto e pallido e afflitto io frigno,
e grido ai nembi che mai m’ascoltâr...
e canto l’ultima strofa del cigno
per morir forse, e forse sognar,
e sento ‘l dardo del tempo che fugge,
e sono irriso, dovunque ischernito...
e pur m’è amara quell’acqua che mugge
dai quieti cieli del cupo Infinito,
e non ho pace, né calma... né porto
scorgo da’i turbini dell’ansio mar...
e sono l’ombra d’un sogno ch’è morto,
ed ai fantasimi debbo tornar.
Come una vittima che piange ed urla
mi copro ‘l volto coll’ossa d’un folle
germe del libero core che volle
cangiar il fato in bieco dolor;
e sono l’uomo che mèndica Amore,
l’orma che vendica l’estro d’un fiore...
e son lo spettro che vaga meschino
pell’aspre Notti del blando Destino,
e son la lugubre pietra tombale
che mi rinserra e vivo e immortale...
e sono ‘l fango bruttato dal vento
che vive sempre dell’ultimo stento,
e son l’avello che ride silente
come ‘l silenzio del labbro che ‘l sente...
e sono ‘l verme che pizzica un sasso,
mare di noja, di pena e di lasso.
L’avverso dado mi volle mendìco
lungo le strade, le selve e le rive...
sempre tra’i ghiacci perenni e le vive
nevi infocate, tra mille sospir...
senza una spene e senza del pane,
privo - m’impose - di calde coperte
nel truce e gelido vento; e le certe
speni sen vanno scontente a dormir.
Tu che passi galante nel volto,
dolce fiamma che sei passeggera,
mi ristora la dolce preghiera,
al tuo core ti parli pietà,
o almeno mi porgi la mano
come segno di viva speranza...
o si tacqua la formida danza
che al Destino mi lega e sen va.
Tu che fuggi commossa nel viso,
breve fiamma che sei la mia spera,
dammi un pegno di pace, o la sera
qui m’inghiotta per sempre, viltà.
Sono ‘l mendìco che chiede l’Amore,
quando di Notte i cieli son freschi;
e sono l’uomo che vaga tra’i deschi
dell’aspro Fato in pieno delir.
L’alma m’è ignuda... e gela tra’i ghiacci
de’i caldi nuvoli, e muojo di brina...
e son la vittima turpe e meschina
che ‘l destin crudo sen vola a ferir.
Datemi Amore, il pane dell’anima
perché s’acquietino le scosse vene
che van tra’i brividi e tra le pene
a librar sangue al solo dolor,
perché io possa finir di parlare
co’i sordi ciottoli, co’i muti sterpi,
perché si fuggano l’avide serpi
d’un dado avverso che chiudemi ‘l cor.
Datemi Amore, la linfa del gelso
che lieto sboccia sul far della vera
perché s’acquieti l’avida e fiera
spira del Fato che più non sen muor,
perché io assapori la libera Vita
del sentimento, desiro mordace...
e voglio un bacio, e prego la pace...
bramo che ‘l pianto si muti in un fior.
Sono ‘l Destino che inghiotte la Notte,
e son l’istrione che l’orbe beffeggia...
sono l’atòmo... un germe... una scheggia
e sono l’idra che s’alza ancor più;
e sono ‘l Mostro temuto da’i Numi,
tu sei mia vittima, dannato poëta.
Sentimi ancora... e poscia t’acquieta:
ho una sol preda, e questa sei tu.
Sono ‘l Destino e sempre t’irrido.
Piangi la fiamma! È un tempo che fu! |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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