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Veggo di zoccoli l’orme su neve,
folle galoppo che grida pur lagne;
e sento poscia che l’eremo piagne
tra’i ghiacci ostili l’ignoto avvenir.
Ier una truppa partì di cosacchi,
bianchi i destrieri qual neve di steppa.
Odo nell’eco un fucil che s’inceppa
e intendo un urlo che ‘l ciel va a ferir.
Sento che ragliano i crini bellici,
e vanno in furie le formide truppe;
ma ‘l patrio asilo che al Franco si ruppe
indarno spreme l’antico valor.
Sento che piegansi l’aride cèrvici...
L’aura di Russia è un mar di dolor.
Veggo del sangue l’impronta che geme
e che qui parmi un freddo rubino
senz’anni e speni sìccome un bambino
che nella culla di fame morì;
e scorgo l’anime de’ prodi estinti
vagar tra’i venti dell’aspre bufere,
pianti di neve che sono le fiere
reincarnazioni d’eroe che perì.
Allora ascolto nell’aër che corre
del spento milite l’alto lamento;
ed è tal brezza un fosco tormento
che fere a morte l’udito che ‘l sa.
Sento che ‘l vento una prece vuol sciorre,
ma muto e ansioso e cieco sen va.
Ahimè! Una raffica d’ignoti acciari
empie ‘l tramonto d’un foco che strilla;
e geme ‘l fiume, e brucia una villa
e s’alza un fumo vestito di ner;
e l’igneo labbro di stolto cannone
impazza e strugge la gelida ripa
e la sua possa non più si dissipa
anzi s’accresce qual truce mister.
Esso ancor tòna e fere la neve;
e s’alza un turbine che par tempesta,
e in tal fragore mi duol sì la testa
che più le spere intender non so.
M’alzo dal sasso, mia seggiola lieve
e in vicin bosco, lontano men vo.
Qui, nella selva che dorme in pia quiete,
tra ‘l niveo manto leggiero qual lino,
scorgo nascosta all’ombra d’un pino
croce di ghiaccio... la brina d’avel.
I nostri prodi morirono; e veggo
sull’aspra lapide fatta di ghiacci
i loro nomi incisi co’i lacci
de’ lor destrieri... di sorte crudel.
Ora da’i nembi un raggio di Sole
fere tal selva, la steppa infinita;
e scioglie ‘l ghiaccio che copre la Vita
che in quella tomba nell’ansia sen muor.
Non più una lapide, ma fredda mole
di sciolte nevi sta dianzi al mio cor.
È ‘l pianto - l’ultimo - di quel sepolcro
che ‘l cener serra dell’ussaro estinto
la goccia gelida che un ciel discinto
toglie dal ghiaccio che a sciogliersi va;
ed è ‘l lamento dell’alma sepolta
senza più onori, del vento la foga;
e ‘l sacro nome del morto lì voga
in questo mare ch’estinguersi or sa.
Riede l’inverno. Ma nulla rimane;
ossa innevate che restano a terra.
Oblïo infame!... Ei prode in guerra,
ma un nome, un vanto per lui non v’è più;
e un calle freddo di gelido ossame
non può membrare il grande che fu. |
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