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Se vita scorsa mi condusse per gli
stretti passaggi pieni di perigli.
se vinti questi approdai sul lido
della vecchiaia e tristemente sfido
quanto di tempo ignoto ancora resta
a svolgere la pellicola mesta
di mille scontri che solo ora vedo
perduti, ché finora dissi: credo
d’aver vinto la palma del primato,
ora, umile resto e se arrivato
primo mi vedo non ne meno vanto
perché fortuna si potrebbe intanto
mutare ed altri forse recherei
alla perfida invidia e rimarrei
a me stesso molesto; se pensando
di rendere a ciascun evento, quando
visto con nuova e più sapiente mente
ricollocarlo adesso giustamente
nella storia dei fatti mi son dato
per compito che è talvolta ingrato,
perché feroci ed affilati artigli
mi vengono addossati che così gli
errori siano peso inconsueto
all’ego. oramai fatto mansueto
si che sperava d’essere compreso
nel novero di quanti hanno preso
retta coscienza? E che, pertanto, sono
di vigorosa senectute, dono
degli Olimpi superni chiaro esempio.
Perché farmi oramai di mente scempio?
Perché le membra molli e vacillanti
perché movenze scarse ed esitanti.
sguardi incerti, visioni, e poi dolore
incessante, monotono, per ore
assedia tutto il corpo e non si muta
ma ingravescente grida: ora t’aiuta
coi tuoi ragionamenti e la tua scienza!
Bestemmia pure il seme e la semenza;
sei in mio potere, e quando mai lo schiavo
si rivoltò al padrone: io ti spiavo
mentre più ardito accarezzavi i monti
e ti tuffavi in mare in quei tramonti
di fiamma che sfidava la tua fame
di vita, pure nel momento infame
dei tradimenti e della dura sorte
quando solo evocare pace morte
t’era amara ma ancora la speranza
albergava il tuo cuore, nella stanza
sua più nascosta. E ancora ti spiavo
quando sulla tastiera ti guardavo
del pianoforte tuo o con l’archetto
del tuo violino in mano: L’architetto
di tua esistenza molte cose diede
a te e ne gioivo perché siede
sulla sponda del fiume più felice
chi attende del nemico il corpo e dice
questi fu ben dotato e l’alto crollo
ben mi rallegra che spezzò suo collo
e sua felicità lascio che duri
sì che gravino forte i giorni oscuri.
Io ti spiavo. Quando in mano strette
le redini sicuro galoppavi
quando la scotta di randa tesavi
o il timone reggevi o scivolavi
una cartuccia nell’otturatore
del revolver o della carabina
io ti aspettavo. E quanto più facevi
tanto più ghiotta pareva la caduta.
Quanto tu mostro devi aver avuto
piacere innominato allor che stretta
la doppietta le notti consumavo,
gelide notti in gelida palude
e laddove insidiavo nell’incendio
dell’aurora il lacustre predone
e la canna da pesca formava
un magico e superbo arcobaleno.
Che dire dei momenti di magia
passati in sella della bicicletta
od alla spensierata guida lenta
della vettura, mio strumento amico
che mi portava a conoscere il mondo?
E dopo, paulo si licet maiora
canere rimaneva la lettura
e l’ascolto di musica divina-
mente concessa all’assetata mente.
Ma i momenti dell’osceno piacere
che il tuo potere ti prefigurava
furono certo quando ancora ignaro
accompagnavo il mio ad un corpo amato
cercando comunione d’ogni intento.
Ora il carniere è pieno. Ora ti volgi
a scoprirne ogni oggetto, sì che pronto
tu possa sceglier quale gettar prima:
e fu la vista – bene necessario
a fruire di tanti. Non volesti
frugare nel dettaglio ma i maestri
imitare di tecniche aggiornate
e per sintesi estreme procedesti.
Vennero quindi i movimenti ed anche
tremori e barcollii – e sì con essi
tante azioni banali e impegnative.
E poi il gusto alterato sì che scarso
alimento è gradito e deprivati
d’ogni senso sono sigari e pipa.
Ultimo viene il senso dell’udito
al quale è surrogato immane scroscio
di cascata alterato da sirena
che appare furibonda e di sorpresa.
Questa canzone canta un vecchio tronco
al quale vita, ed anche morte, pesa. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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