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Un tempo viveva vegliardo cipresso,
cent’anni di Vita solingo menò.
Su ripa lontana piegava malmesso
il fusto tremante che secco spirò.
Un giorno passava fuggente fanciulla
dal peplo strappato, dal caduco ciel.
La piaga sul seno, la candida culla
versò dolce seme sul tremulo avel.
Di notte la gemma divenne una rosa,
il nobile fiore di fulvo color.
La dama che l’ebbe, la credula sposa
non era mortale ma Diva d’Amor.
Seguiva perduta tra fulgide selve
le tracce bramate del povero Adon.
Le spine di rose, qual facili belve,
le piaghe le apriro per casta passion.
Un tempo viveva vegliardo cipresso,
cent’anni di Vita solingo menò.
Ma quando fu desto, con guardo perplesso,
la giovine rosa ai piedi trovò.
«Qual corpo gentile, qual giovin vigore,
qual rosso desiro ritrovo al mio piè!
Non so cosa sono, ma sento l’Amore,
un Nume o’l Destino costei mi rendè.
Non essere folle! Sei solo gran legno,
cipresso vegliardo, sei solo un baston!
L’etade mi lascia, non sono più degno
d’Amore sognato, perduto mi son.
Non vedi che schiva la fronda vegliarda,
non vedi che cangia sovente’l cammin?
La giovine rosa rifugge e s’azzarda
a pianger sventrata sul proprio destin!
Non esca parola dal core rapito,
non esca che l’amo, vegliardo d’età.
Non colga il suo volto nemmanco un sol dito,
amar questa rosa mi sembra viltà».
Un tempo viveva vegliardo cipresso,
cent’anni di Vita solingo menò.
Un Nume una speme gli aveva rimesso,
la volle ignorare, per sempre spirò. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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