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Nell'ermo del core, sul lido d'un lago
volgeva il cantore una fola a cantar.
Sclamava gemendo l'Amore mai pago
che tanto per anni lo fece penar.
Gustando le doglie qual coppa di vino
i lassi membrava d'antica passion;
seduto su ripa, col capo supino
ai pesci donava siffatta canzon.
«In tempo vetusto un cigno dolente
sull'acque viveva d'un picciolo mar.
Il ciglio solingo, la piuma gemente
giacevan perduti nel bieco nuotar.
Sognando la requie bramava l'Amore,
voleva straziato far pago il desir.
Ma in sogni fuggenti fugavano l'ore,
solingo e dannato restava il respir.
Qual cielo fulgente sul cimo del monte
un'aquila amena volgeva a volar.
Coll'ale librate, con giovine fronte
pe' i nembi sereni pareva danzar.
Chiedeva letizia, voleva diletto,
la vita del core per sempre goder.
Dal becco rapace, dal manto del petto
gridava feroce l'infausto voler.
Dal lago spietato, dal grido di pena
il cigno sperduto quell'aquila urtò;
con voce sospinta, con alma serena
la femmina aquila con grazia pregò.
Dal candido petto, dal core grazioso
a speme mendace quel cigno si diè:
credeva contento che fosse lo sposo
d'un'aquila bella che presto perdè.
Allora quel becco s'accorse del cigno,
quel candido volto prostrarsi per lei.
Ma in cor vanitoso silente era l'igno,
d'Amore tacevan dal Cielo gli Dei.
Con cruda coscienza si fece crudele,
il cigno dolente si volse a ignorar.
Quant'aspro dolore, quant'acido fiele
il cigno sperante si mise a provar.
Rompendo qual tòno tremendo silenzio
dal lago quel cigno l'ingrata chiamò.
In pena feroce, sapore d'assenzio,
dall'acque malvagie quel miser cantò.
Parea che dicesse, parea che pregasse:-
Ti prego, crudele, concedimi Amor.
Se il core che mostri soltanto m'amasse
torrebbe una speme l'intero dolor-.
Frattanto quell'ugna da giorni affilata
sul ramo d'un pioppo colà si posò.
Sentiva, sentiva venire chiamata,
ma il tremulo core vincente pugnò.
Un cigno solingo, cantore sperduto,
non era l'oggetto del nobile cor;
a ciglio possente non può solo il liuto
colmar l'ambizioni d'impavido ardor.
Cantava, cantava quel cigno la speme,
quell'ugola secca se stessa ferì.
La vita solinga per vita d'insieme
crudele coscienza richiese e perì.
Da oppresso silenzio, da pavida cuna
quel cigno sol l'onde nel duolo cullâr.
Da stella morente, da pallida Luna
al bianco cantore le lene mancâr.
L'aquila funesta allor mosse il becco,
il canto d'Amore per sempre negò.
Gridava diniego terribile e secco,
il cigno per sempre obliare sembrò.
Ma il cigno cantava, pregava il suo volto
perduto nel sogno che il sonno rendè.
Quel folle lamento non ebbe l'ascolto,
il sangue d'Amore sol spemi bevè.
Dall'ore passate, da tepida Notte
il cigno gemendo se stesso straziò.
Dall'acque del lago, da placide motte
la voce d'infame l'Amore negò.
Dal becco serrato, dal folle scompiglio
taceva quel mostro per cieco desir.
Dal ciglio stancato guardava l'artiglio,
quel cigno dolente doveva morir.
Qual Fato già scritto, qual turbine d'acque
il ciglio s'arrese per cruda beltà.
Dal becco placato la lagna si tacque,
non vinse l'Amore, non vinse pietà.
Eppur tra lo spasmo del cigno morente
quell'aquila atroce scoperse sospir.
Crudele fu tanto col cigno dolente
che insieme per foco, per core morîr.
Ormai ch'ho cantato la mesta vicenda
per mesti recordi debb'io lagrimar.
Amor non risposto qual trista tragenda,
l'istoria funesta non so continuar». |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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