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Quest'arpa è il sibilo sottile
che dinanzi all'Oceano prega
piangendo di pianto gentile
pell'eco che sordo lo nega,
onde le silenziose Ebridi
non sapranno mai quel lamento
che uscito da labbri tepidi
d'un bardo eleva lo sgomento,
e quelle tormentate tempie
cui senza pace, senza requie
crudel destino il tempo adempie
memore di morte e d'esequie.
Risòna pell'aër funereo
l'addolorata cornamusa
alla qual voce il suol cinereo
la temprata quiete ricusa.
Le Ondine salutan l'inverno;
le Silfidi fuggono il gelo.
Di sì oscuro spirto d'Averno
si tinge la volta del cielo.
Un fioco stral di frale Luna
illumina l'alta betulla
ove giace sur d'una runa
l'Estate, gioviale fanciulla,
sicché nel freddo non sta Amore,
né Fede, né forse Speranza
poiché l'orbe nel suo dolore
il fio paga della baldanza.
Eppure il bardo canta agli Dei,
ai santi Lari, ai sacri Imeni;
e forte si scaglia contra i rei
che pe'i bivi spargon veleni.
Questo sono è la Speme umana
rinchiusa nella veglia Poesia
che crede con fedeltà arcana
che presto nuova Estate si dia. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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