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V'era tempo addietro una damigella
che, figlia di defunti mercatanti,
vivea quale solinga colombella
e, sebbene amena, fugava i vanti
che altre belle dame poteano mostrar
in quella Venezia settecentesca
che di cortigiane volea pullular
con ria lussuria, con arte furbesca.
Caterina qual la grande Fornaro
ella si nomava con posa e grazia,
senza saper che quel nome era caro
ai giovin che l'alma voleano sazia
ricorrendo all'Amore voluttuoso
di fanciulle pudiche o disoneste...
librandosi al gran diletto amoroso
di damigelle angioeliche o funeste.
Avendo poi bella e profonda voce,
costei seppe incantar il buon Vivaldi
che per inspirazione della Croce
mosse a lei passi sicuri e sì baldi
affinché ella accettasse la proposta
di divenir lirica cantatrice.
Ella accettò. Questa fu la risposta.
Ma la ria Sorte si fè ingannatrice.
Chiamato dagli imperator viennesi,
il celebre musico menò altrove
per lasciar colle musiche sorpresi
gli Austri, e le dorate regge già giove.
Così a Venezia tutto fu scordato:
il coro non avea più un grande maestro,
il bel teatro giacque dimenticato,
e i cantator non serviano più un estro.
Fu allora che il Fato ruggì feroce
contra l'illusa e mesta Caterina.
Infatti giunse a lei lesto e veloce
un prete che, senza pietà divina,
la costrinse a mettersi al suo servigio
e le strappò dal labbro un giuramento
che poco giusto, religioso e ligio,
fugava da lei d'Amor il momento.
La fanciulla al maraviglioso canto
si sarebbe dedicata e a nient'altro;
e ognor avrebbe strutto e fatto affranto
l'ardor d'ogni dolce uom onesto o scaltro.
Se calpesto fosse stato quel giuro
ella sarebbe stata allontanata
dall'estro armonico del prete oscuro,
e per sempre da lui dimenticata.
Ma altro ancora nella crudel promessa
stava astutamente celato e ascosto,
ché il prete volea che la morte istessa
l'avrebbe poi colta, rapita... e tosto.
E questi non ischerzava beffardo,
né esagerava colle conseguenze,
giacché ei istesso al Cielo era un azzardo
in contatto con infernal coscienze.
Già molt'anni pria tale sacerdote
fu l'ignota cagion della morte acra
di due belle cortigiane allor note
che gli fecer scordar la Croce sacra.
Esse, ignorando la trama infernale
che s'ascondea né suoi arcani recessi,
si dieder al suo diletto carnale
e giacquero con lui in blasfemi amplessi.
Poscia qualche dì esse già si pugnavan
prese entrambi da una folle gelosia;
e senza pia vergogna litigavan
ratte da un'ignota e crudel malvasia.
Così il serraglio una tomba diventò
ché al bel seno si ferir a vicenda.
Salito da Laggiù se le trangugiò
il Dimonio in un celere baleno.
Misera Caterina! Povera alma!...
Vittima della sua istessa umiltà
già s'appressava a struggersi la calma,
il futuro, la vita e la Libertà.
Inconsapevolmente avea aderito
all'insidie tentatrici e tremende
d'un Inferno mai stanco né sopito
che ancora desia seminar tragende.
Un dì mesta menava al picciol pozzo
a coglier l'acqua pel bagno serotino,
quando un cavalier gentile, non rozzo,
la mirò col cor che s'apria al Divino.
Vedendola poi trascinar a stenti
la pesante riempita bacinella,
ei accorse con passi e celeri e lenti
in un'aita che urlò la sorte rubella.
- Che cosa fate, messer cavaliero?...
Non ho d'uopo d'aita. Ma vi ringrazio-
diss'ella con detto di stupor foriero.
- Vi vò aitare. Il desio mio fate sazio!...
Guardatevi!... Siete lì china e strutta-
sclamò il giovine con detto sicuro.
Ahi quanto la vicenda si fè brutta
quando ella accettò ignorando l'Oscuro.
Infatti da entrambi i lor baldi sguardi
balenar lampi che più di parole...
che più di venerei e pagani dardi
annunziar pie ed amorose carole.
Caterina era lungi dal recordar
il terrificante giuro sì arcano;
e già si sentiva prossima ad amar
col cor pur palpitante nella mano.
Fattasi trascinar l'onere d'acque
fino all'uscio della sua cara villa,
chiese- Chi mai siete- e timida tacque
il responso aspettando tranquilla.
- Son io Simon Corsari, galantuomo
e capitan della Serenissima.
Di San Marco menavo al grande duomo
quand'ecco mirai voi, oh aulentissima.
Andava il mio cor a pregare il Cielo
sotto l'ombra del Santo protettore,
quand'ecco mirai un femminino velo
che m'ispirò non prece, bensì Amore.
Allor mi dissi " Il Cielo viene da me "!...
E qual Ciel!... Ciel biondo, casto e grazioso
che coll'azzurro del ciglio tanta fè
mosse e portò nel mio core impetuoso.
Così, senza ambagi e senza angosciarmi,
vi dico che quel Cielo, sì, siete voi.
Non chiedete da voi di svincolarmi
ché Venezia ha grandi amanti oltre che eroi.
L'orbe intero imparare presto dovrà
che il sacro Leon pria di sbranar sa amare.
L'Imper dell'Amore mai si troverà
ne' pressi del tristo e rio tramontare-.
In tal guisa il giovinotto rispose
alla domanda della fanciulletta,
la qual sentì odor di mirto e di rose
e farsi forte una fiamma diletta.
Ahimè!... Sìccome celere quel foco...
quella fiamma d'Amore già divampò,
nunzio di terribile e crudo giuoco
il rio prete ai due amanti si palesò.
- Orrida peccatrice! Ria spergiura-
sclamò il sacerdote in preda alla furia-
Turca! Infedele! Aborto di natura!...
Al fin t'ho colta in insana goduria!...
Ecco avverarsi la bruta effusione
che proibito t'avea con gran rampogna...
sì, ti veggo balenar la passione
che alla fin ti condurrà e alla vergogna.
E voi, uom sbronzo d'Amore e d'altre brame,
drudo senza onore, rio zerbinotto,
soverchiator di letti e di gran dame,
pezzente e miserevole galeotto,
chi siete e da costei che mai volete?...
Sì, sì... so bene che desio vi balza
in quel corpo ratto da sessual sete.
Per questo il mio furor divampa e s'alza-.
Nonostante colto senza preavviso,
il cavalier mirò più volte bieco
il prete che invece stava in sorriso
alla Pietà mostrandosi assai cieco.
E mentre Caterina piangea tanto,
questo giovin ansimò furibondo-
Ria fiera ascosta sotto sacro manto,
Tartaro che alla botte hai dato fondo,
dimmi se mai sia gesta religiosa
offender una fanciulla galante
ch'ora per tua colpa sta lagrimosa,
e se altrettanto sia azione brillante
recar inuria a me che son cavalier
e della Repubblica capitano.
Ah sì! Comprendo!... Fasullo e menzogner
era quel voto che hai fatto, oh insano!...
Ringrazia il Cielo: la tonaca vesti!...
Se tu fossi un semplice cittadino
assaggeresti i miei pugni funesti
e poi la morte degna d'un meschino.
Ma attento: un detto ancora e ti subisso-.
- Folle! Pazzo- il sacerdote osò dire-
Per te... per voi s'apre il profondo abisso
che conduce all'Impero sì mostruoso
di quel loco colmo di dannazione.
Voi vi amate!... Il mio negar sta impetuoso
ché salvar vi vò dalla Perdizione.
Ma, innamorata e insipiente plebaglia,
irremovibile è il tuo folle errore.
Per questo, spregiudicata marmaglia,
già pagherai meco il fio dell'Amore-.
- Tu non la farai pagare a nessuno-
ansimò il cavalier sempre adirato-
Guardati ben! Non farci male alcuno,
se non vuoi esser dassenno subissato-.
- Figlio illegittimo d'un lupanare,
carogna in preda alle crudeli fiere,
se meco desiri e brami duellare
alla gran piazza vien all'ore nere.
Immantinente! Suvvia: questa notte.
Uno di noi tre dee morir e tosto,
nella furia pagana delle lotte.
Questo vuole e desia Iddio ad ogni costo!...
Giovin sgraziato, preparati a morir
ne' pressi del palagio del tuo signor.
Di fronte alla spada non so impallidir,
e di cadere morto non ho timor.
E tu, codarda e sozza cortigiana,
dal mio concertare sei ripudiata.
Piangi! Piangi!... Ma sei debole e insana
giacché un dì t'avevo ben avvisata-.
- All'arme dunque- il giovin domandò.
- All'arme sia- il sacerdote ribatté.
Ahimè, la maledizione divampò.
Ahimè, un Amore casto già si perdè.
Allora il prete prese Caterina
e già la trascinò via per un braccio.
Ahimè, Sorte infame, folle e meschina,
qual tragenda nacque da questo laccio.
- Ti libererò: lo giuro, madama-
pensava tra sé il cavalier portente
che già corse a prender la sua lama
dalla sua armeria gloriosa e furente.
Frattanto il prete portò la donzella
nella sacerdotale sua dimora,
e la serrò in una stanza rubella
nella quale dovea restar ognora.
Lì fu raggiunta da una servitrice
che fingendo dolce e cara pietade
a lei diè una tisana ingannatrice
che le avrebbe tolto la Libertade.
Giunse la sera!... La notte comparì!...
Placidi erano i moli, quieti i ponti.
Il lume del tramonto s'affievolì.
In lontananza poi sparver i monti.
Simon, armato d'una spada amena,
s'appressava a librar la sua diletta
mediante una lotta orrida e terrena
tra ogni palagio, tra ogni gondoletta.
Giunse nella piazza del Protettore.
Ne' vicini moli nobil dame
in compagnia beata del loro Amore
salian a rendere sazie le fame
sulle belle gondole galleggianti
ove, abbracciate, sentiano tranquille
de' gondolieri l'arie sì brillanti
che parlavan d'amorose faville.
Dallo stupendo palagio ducale
si vedean alcuni forti e bei lumi.
D'un violino dal bel sono immortale
si sentian uscir note e rondò a fiumi.
Nel Duomo invece v'era santa messa.
Infatti si udiva il coro che forte
cantava dinnanzi alla fedel ressa
la vita di Lui che vinse la Morte.
Ne' pressi del campanile possente
s'aggirava un'ombra crudele e losca.
Tenea in mano una gran lama lucente
che si vedeva anche in mezzo alla fosca.
Simon s'avvicinò e mirò un sembiante
che avvolto in nero e tremendo mantello,
e ascosto da una larva orripilante,
su di lui s'avventò iniziando il duello.
Lo scontro durò a lungo e con furore.
Ad un tratto, nel mezzo d'aspri fumi,
senza avere commesso niun errore,
la spada del rival cadde in frantumi.
Simon affondò e trafisse il meschino.
Ahi lasso!... Mentre costui cadea al suolo
s'udì un frale lamento femminino
che si facea nunzio di fatal duolo.
Il cavalier tolse la larva al rival,
e vide il volto pio di Caterina.
Quale visione crudele e mortale!...
Quale trama terribile e meschina.
Allor Simon s'inginocchiò agghiacciato,
si guardò le mani colme di sangue,
e gridò gemente e terrorizzato.
Ahimè, quant'è aspro il Fato quando langue!
- Ove son- chiese la dama spirante-
Perché tu qua a uccidermi, caro amato?...
Ah... Ritrovo la parola spasmante.
Perduta l'avea. Ascoltami, adorato.
Una malefica e trista tisana
mi rese muta e mi fè conquidere
da un'infernal possa folle e arcana.
L'Inferno cupo ci vuol deridere.
Non sapevo chi fosse nella realtà.
Ascolta!... Ah!... Ingenua, sì, feci un patto
con un demòne rio maestro di viltà.
E questo demòne alfine m'ha ratto.
Ah!... Non... non sapevo chi fosse. Ahimè!...
Sto morendo... Vero? Non mentire, caro.
Qui per fatalità trafitta da te
giaccio in un duolo sempre più amaro.
Senti?... Ah!... L'estrema ora già mi chiama!...
Ho ancora uno spiro... una possa beata.
Ascolta!... Io t'amo... Son la tua dama.
T'amo!... T'amo!... Dimmi che son amata!...
Dimmi... dimmi-. Ei sclamò allora- T'amo!...
T'amo!... E per sempre!... Per sempre... in eterno.
Caterina!... Non morire!... Ti bramo!...
T'amo... t'amo!... Maledetto l'Inferno-.
- Morta- ansimò una voce terribile
che s'allontanò in un'aspra risata.
Simon svenne. Qual Destino orribile.
Sì, ei svenne lì, sul corpo dell'amata,
vittima d'un male rio e irascibile.
Ad un tratto uscì dal Duomo un cardinal.
Andò presso la salma sventurata;
poscia alzò le pie mani al Cielo immortal
e solenne poi sclamò- Sei salvata-.
Poscia un minuto Simon si riprese.
Incurante del cardinale e d'altri,
s'alzò tremante pel duolo palese
e con passi insicuri, frali e scaltri
andò al tragico molo lì vicino.
S'inginocchiò e chinò il volto sul mare.
Per colpa dell'infame e rio Destino
dava sfogo a mille lagrime amare.
Ma lì riflessa sull'acque marine
scorse una stella che brillava molto
di immense luci possenti e divine.
Al cielo stellato alzò il mesto volto.
Fissò attentamente la dolce stella.
Il suo ciglio era tutt'uno con essa.
La sua membranza tornò sana e bella,
e al labbro venne un sorriso per dessa.
- Caterina- sorridendo poi disse.
E al Cielo di nuovo il bel guardo affisse.
Di Sathana il meschino furore
è sempre nullo di fronte all'Amore.
Colui che dall'Inferno è ingannato,
dall'Amore sempre vien sublimato.
La splendida Morale parla chiaro:
chi non ama è un demòne folle e amaro. |
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