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| A questa mente astrarre io voglio Pizia,
anima mia, se ne indovini il dire
silente nel suo candido furore,
scabro per chi in se stesso solo intende,
ignoto a chi alla carne non condensa
zirlo di spirito che assorda e non si sente.
Il senno a Ipazia s'arretr'irrisolto
davanti a lei, e in lei tradurre sappia
la geometria d'amor che nel sedurre
sa trar perizia, dirvi sazi umori
di sapienza d'ardore rigoroso,
sì che quest'anima, or sacerdotessa
di tal pregna follia resa, rispecchi
la propria ossessa fausta intemperanza:
«oziai sazia di versi per trar muri
entro cui cingere il tuo nome al cuore
che come da una zip sai trarre tu:
dalla tasca di questo andar vagando
licenziosa che all'abito mi pende,
la crepa che mi fende in tuo riflesso
in cui ti insinui enigma della grazia
schiudendomi al pensiero più segreto:
impressa in desiderio la tua stigma,
ne rintracci con l'essere il suo ordito».
Muri entro cui io imprigionassi il senso,
col tessere in plausibile parola
la tua figura che si fugge via
non resistendo ad esegesi alcuna,
che si stinge restando solamente
la mimesi di te, dove t'occulti
pur a te stessa, e ne risulti assente.
Il pensier vostro ancora in otium s'ari,
dirvi sapendo, a voi, Pizia ed Ipazia,
con qual misura io debba abbracciarvi
nel simbolo di regola ed ebbrezza,
qual ermeneia tracci alla mia mente
con sottigliezza d'un cortese azzardo
il disegno che finga in filigrana
la grazia che mi strugge e mi divide. | |
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