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Via Parpagliona è una strada senza uscita.
Dopo la curva
qualche buca segnala un quartiere isolato, una zolla
gigante di rovi e palazzi, divisa
dal resto del globo, e abitata
dall'erba che vivacchia
ai bordi della polvere dei camion.
La fessura è sottile
e sensibile. Chi la varca
òrbita parallelo. La roggia rossa
fuoriesce da una grata arrugginita
e imprigiona il fragore del ferro fuso
notte e giorno, e le rare esplosioni
che le stagioni non mutano. La scavalca
una lastra di cemento: la ringhiera
è l'altra commessura che assomiglia
lo screzio colorato di una biglia
di vetro da bambini. Si corruga
al tatto come un piccolo cratere, la sua superficie
è la sorella minore della luna.
Svoltando dalla parte di questo estremo
scrutavo la finestra della casa
che poi le foglie hanno nascosto
e l'estate, e la forza maligna
della bella- di- notte. Infesta quell'aiuola
da anni, mi si dice: l'avessimo previsto
non ci saremmo alleati nel gioco puerile
di sotterrarvi un'altra pianta, senza fortuna. Così
ora soltanto all'ultimo rilevo
lo stato dell'intonaco, l'umore
del mio cuore complice, e mi arriva attutito
il vento di rovina della tua bocca.
Sempre debbo chinarmi per udire i suoi silenzi.
Hanno l'imperio assoluto delle pause dei salmi,
tra versetto ed antifona. Si stenta ad adeguarvisi,
nulla esime dalla risposta, sia pure
anch'essa silenziosa. Né saprei
decidere se pesi
più un chilo di stracci o di filo
di ferro. La terrazza
è ingombra di oggetti ammaccati, i panni stesi
interrogano chi li ritira, qualcuno cade
di sotto, e nessuno lo raccoglie.
Fa tenerezza il giardino abbandonato
dove passeggi, Susanna. Se esclama l'angoscia
che t'assale, non c'è
chi convocare per salvarti.
D'un tratto, il tesoro dei rottami
diventa una giostra di nastri a raggiera, un sistema solare
di stelle filanti, tra riso e sgomento, e ci attornia
un clamore assassino, un'inquietudine
da ospizio pericolante. Parti di noi
che non sappiamo ricomporre, assorti
nell'incrocio di voci a rimbalzo dal muro
al letto. L'imbarcazione
piccina, a precipizio sulle onde
di sudore e di urina intirizzita,
s'incanta e ci trattiene all'infinito
senza più preavviso.
La culla il flutto ipnotico del molo.
Da dove esco ti domandi: non ho
il coraggio di dirti che più di te
ho amato il piccolo principe senza più forze
per dissodare il suo pianeta. Diceva:
"Scavare non posso e mendicare mi vergogno''.
Avrei voluto dirgli non farlo, cura piuttosto
le radici e i tuoi rami, la loro bellezza
rispetta il futuro, riporta
in vista dalla strada la casa intera, se guardo
traverso l'aria limpida dei mesi
che il sole è vicino alla terra, nello spazio.
Assentisci anche tu, perché sei saggia.
La notte di Natale ti ha protetta
un'anta dell'armadio, era il tuo
il sangue nella stanza. Capodanno
arrivò regolare, contro ogni possibile
scongiuro, la settimana dopo. Indietreggiammo
incerti nella notte la neve gli spari, dal cofano chiuso
un cigolio di dondolo a sorreggere
l'altalena d'infanzia del tuo mondo
rumoroso, senza ripari, più tardi suggellato
dalla spilla di stoffa fatata
che hai legata ai capelli. Una carezza. |
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