Sciolsi i capelli.
Leccai la mia pelle come un gatto. Chiusi in pugni le mie dita, leccai i miei polsi e le mie vene chiudendo gli occhi.
Il mascara nero sulle ciglia brillava alla luce del lampione, mentre fredda la strada mi guardava.
Mi innamorai delle foglie che erano cadute morte. Mi innamorai della seduzione del vento. Mi leccai le labbra e le morsi: una goccia di sangue cadde sul nero cemento, lì dove calpestata c’era una rosa, gialla e pallida come la luna.
La leccai, la luna, florida con i suoi seni riflessi. Li morsi, stringendo gli occhi gonfi.
Danzava il vento come una donna del deserto: mi divorava nel viola dei suoi occhi, mi risucchiava nel nero delle sue pupille dilatate.
Giocò con i miei riccioli, mi comandò di tacere, mi comandò di rimanere immobile.
Indiscreto lo sentii, il suo respiro pesante.
Sul mio collo sentii le sue mani, sentii il suo fuoco.
Salii sul terrazzo. Aprii le mie ali.
Salii sul punto più alto del grattacielo…
Sentii la pietà delle stelle, misera meschina pietà. Sentii lo sguardo materno di chi ha il disprezzo.
Salii ancora…
Gli occhi gialli del vento erano incatenati al mio corpo: non mi lasciava, non mi liberava come baci diabolici che avevano il sapore di corde e manette.
E ancora salii... Mi arrampicai.
Mi sembrava di riuscire a sentire le guance delle nuvole. Morbide e zuccherose come il profumo che si espandeva nella stanza di mia nonna: l’ odore semplice della marmellata fatta in casa.
Solleticai e rubai il loro sospiro. Afferrai e misi nel mio scrigno il loro apatico sorriso.
E chiudendo le palpebre trasparenti…
Luci e ombre del presente. Colori e luci di discoteche. Un neon che balbetta un triste presagio.
Occhi e mani che ridono una triste vendetta.
Capricci e oscure sembianze.
Tuoni e lampi come flash di foto. Shock e profilattici come l’ immondizia dei ricordi.
Aprii le mie braccia: ali distratte di un Icaro suicida...
Aprii le mie ali...
Precipitai.
Forse precipitai...