La bambina dagli occhi blu, viveva all’interno di una meravigliosa e selvaggia natura. Non possedeva giocattoli perché la sua, era una famiglia molto povera. Tutti i suoi giochi erano stati creati dalle mani di sua madre, che con talento d’artista, le cuciva bambole di pezza con i ritagli degli abiti che cuciva per guadagnare quel tanto che bastava per sopravvivere e comprare le cose necessarie a quelle due bambine. Ortensia era bellissima ma troppo sensibile e matura per i suoi cinque anni. Rossella più piccola di due, seguiva la sorellina in ogni sua mossa, ma non mostrava esigenze particolari, se non quelle consuete ad una bambina di tre anni.
Sua madre l’aveva voluta chiamare come quel bellissimo fiore che aveva visto durante un suo viaggio in Lombardia. Se ne era innamorata per quei meravigliosi ed intensi colori che variavano dall’azzurro chiaro al blu cobalto, dal rosso magenta a tutte le sfumature del rosa chiaro a quello più intenso.
Ortensia aveva cinque anni ed insieme a sua madre e a sua sorella Rossella, partirono per quel viaggio della speranza. Era la fine degli anni cinquanta e loro tre andavano a raggiungere suo padre emigrato a Torino da qualche anno, per lavorare nel mondo dell’industria.
Ortensia salì con emozione, per la prima volta, su quel treno con carrozze di legno che viaggiava piano e si fermava in continuazione.
Giunsero finalmente alla stazione di Porta Nuova all’alba del terzo giorno. La bambina si guardò attorno e le cime dei monti che circondavano la città le diedero un senso di oppressione. Era abituata all’immensa distesa del mare senza confini e dei campi sterminati di grano, che al soffio del vento ondulavano dolcemente cullando il suo sguardo.
Fu durante la sua prima visita alla città, che Ortensia vide in una vetrina una meravigliosa bambola di cera. Aveva lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri, proprio come i suoi. La bambina si fermò ad ammirarla come incantata e da quel momento iniziò a desiderare di stringere tra le sue piccole braccia quel meraviglioso giocattolo.
Iniziò a chiedere sempre più spesso a sua madre di accompagnarla a fare una passeggiata in quella strada, che costeggiava il parco del Valentino. Appena arrivati davanti a quella vetrina si fermava estasiata e si accorse che la bambola ammiccava muovendo i suoi occhioni verso di lei, come per magìa.
Un giorno, era di domenica, fu suo padre ad accompagnare lei e sua sorella per la consueta passeggiata verso il parco. Giunti davanti alla vetrina, Ortensia guardò suo padre e gli indicò quella meraviglia dicendogli: “Hai visto come è bella. Io non ho mai avuto una vera bambola. Quelle che mi ha cucito la mamma, non hanno le braccia e le gambe dello stesso colore e la loro testa cade da tutte le parti. Gli occhi non si muovono e anche la bocca resta sempre chiusa.” Suo padre la guardò e le sorrise, poi con voce tenera le chiese: “Ti piace davvero tanto, quella bambola”? La bambina lo guardò con gli occhi colmi di speranza e gli sorrise dicendo sì col movimento del capo.
Trascorse qualche mese e giunse l’autunno. Gli alberi del parco si tinsero di caldi colori e piano piano, iniziarono a cadere le foglie formando sulla terra un tappeto morbido e multicolore.
Si avvicinava il Natale e una mattina, durante la solita passeggiata, fermandosi davanti alla vetrina la bambina ebbe un tuffo al cuore. L’oggetto del suo desiderio era stato sostituito con un’altra bambola dai rossi capelli e dagli occhi scuri.
Era bellissima, ma non era quella che lei ormai amava. Ortensia si mise a piangere e per tutto il tempo che rimasero nel parco restò in silenzio. Sua madre che non riusciva a capire quella bambina, le disse: “Sei la solita stupida capricciosa, e non sai nemmeno tu perché piangi”.
Faceva freddo e la bambina chiese a sua madre di tornare a casa prima del solito. La loro casa si trovava nella periferia della città, in un quartiere popolare dove vivevano quasi tutti gli emigrati che come loro, dall’Italia meridionale si erano trasferiti in quella città lasciando la loro terra incolta.
Quel giorno la bambina si coricò subito nel suo lettino e non volle alzarsi nemmeno per mangiare. “Sua madre preoccupata, chiamò la vicina, anche lei calabrese e le disse. “Quella bambina mi preoccupa, non mi sembra normale”.
La vicina le consigliò di parlare col prete, che forse era posseduta, oppure di chiamare il medico. Ortensia sentì quelle parole e non comprendendo cosa stesse succedendo, ebbe paura, e quando sentì bussare alla porta, si infilò dentro l’armadio nella stanza di sua madre. Fu così che nel tentativo di nascondersi, toccò nel buio una grossa scatola. Guardò incuriosita e stentò a trattenere un urlo di gioia, quando attraverso una fessura trasparente della scatola, intravide gli occhioni dell’adorata bambola.
Da quel giorno la bambina non chiese più di uscire a fare la solita visita al parco, ma quando sua madre era assorta nelle faccende di casa, si infilava nella stanza dei suoi, apriva l’armadio lentamente e guardava estasiata quella meraviglia.
Mancava una settimana alla festa di Natale e la bambina attendeva impaziente, sicura che quella bambola chiusa nell’armadio, quel giorno di Natale l’avrebbe potuta toccare e stringere fra le braccia.
La mattina dopo la mamma si alzò prima del solito e dopo aver lustrato il piccolo appartamento cercando di renderlo il più accogliente possibile, iniziò a cucinare. Stavano arrivando degli ospiti. Giunsero gli zii che abitavano a Milano portando con sé la cugina.
Era quella, una bambina viziata e capricciosa. Aveva i capelli neri e crespi e gli occhi neri da furbetta. Non si smentì nemmeno quel giorno, e si mise a strillare e a rotolarsi per terra per un ennesimo capriccio. I suoi genitori che gliele davano tutte vinte accorsero per darle ciò che chiedeva, pur di farla tacere.
Ortensia la guardò con disappunto, e lei per tutta risposta, le mostro la lingua facendo una stupida smorfia.
Finito di mangiare, Ortensia e sua sorella, si avviarono verso la loro cameretta. La cugina le seguì e appena entrata iniziò a toccare tutto quello che trovava. Le bambine le dissero: “Ma perché butti tutte le nostre cose per terra. Non lo devi fare, non le devi toccare le nostre bambole” Lei per tutta risposta, le prese dal cestino dove erano state riposte, e iniziò a gettarle per terra. “Sono brutte, non sono bambole vere” disse. “Le mie sì che lo sono!” Continuò saltando dal letto alla sedia e viceversa. Le bambine la odiarono e si misero a chiederle: “Ma quando te ne vai via?”
La zia aveva portato per tutti dei dolci, e per lei e sua sorella, un golfino ciascuno che lei stessa aveva sferruzzato.
A Ortensia non piacque quell’indumento che aveva almeno tre taglie in più della sua. La sorellina che seguiva solo l’istinto, li prese e li buttò per terra saltandoci sopra con i piedi.
La giornata trascorse, e finalmente verso sera, i parenti si accinsero a partire e quando le bambine uscirono dalla loro stanza per salutarli, Ortensia si sentì morire. In braccio all’antipatica cugina, c’era la “sua”bambola.
Ortensia si ammalò per il dolore e trascorse tutte le feste a letto. Rifiutava il cibo e non voleva saperne di uscire di casa.
Dopo alcuni giorni, una mattina, aprendo le imposte, sua madre si lasciò sfuggire un urlo di gioia. “Bambine, che meraviglia! Venite a vedere, c’è la neve, è tutto bianco! Ortensia che non aveva mai visto tutto quel candore, spalancò gli occhi e la bocca in segno di stupore. Ebbe voglia di toccare la neve e di assaporarne il gusto.
La giovane donna vestì le bambine con i panni più caldi che avevano e uscirono. Le strade erano deserte in quanto neanche le poche auto che normalmente transitavano, quel giorno erano rimaste ferme per la paura di incidenti.
Ortensia appena fuori prese una manciata di neve e se la portò in bocca. La neve si sciolse lasciandole un sapore dolciastro, ma quei fiocchi che continuavano a cadere, risvegliarono nella bambina l’istinto di vita e del gioco.
Erano trascorsi alcuni mesi da quel giorno. E una sera suo padre annunciò: “Domani visto che è un giorno di festa, vi porto tutte e tre a fare un bel viaggetto. Ho già i biglietti di andata e ritorno per Milano”. Ortensia si mise a piangere e disse: “Io non voglio andare a trovare quella cugina. Voglio stare a casa da sola!”
“Tu sei piccola non hai ancora sei anni e a casa da sola non puoi stare. Non fare storie, ho deciso così e così sarà.”
Partirono quando tutta la città ancora dormiva. Giunti a Milano dopo alcune ore di viaggio, dalla stazione centrale presero un tram che li condusse nella periferia della città. Anche a Milano era la stessa cosa che a Torino. Periferia, casermoni appena costruiti, tutti uguali e impersonali. Stessa atmosfera stesse facce.
Anche la casa degli zii era simile alla loro. Ortensia salì le scale con il broncio. L’idea di rivedere quella bambina che odiava e che le aveva portato via la cosa che più aveva desiderato, gli rendeva insopportabile l’idea di doverla rincontrare.
Dopo i soliti convenevoli le bambine furono mandate a giocare nella stanza di Marina.
Ortensia si guardò attorno e si accorse che da una scatola posta in un angolo, usciva la gamba di una bambola. Era stata buttata là da sua cugina dopo che vi aveva giocato per qualche giorno. Ora sul letto troneggiava un’altra bambola con i riccioli neri e gli occhi dello stesso colore.
Ortensia non resistette e si avvicinò lentamente alla scatola. Guardò dentro e si rese conto che era proprio lei, la sua adorata bambola.
Si chinò e lentamente la prese in braccio. Il suo piccolo cuore batteva all’impazzata, quando la sollevò e se la strinse al petto. La bambola aveva l’abitino sciupato e anche un po’ sporco. Dei graffi sul viso e sulle braccia, ma i suoi occhi la guardavano con amore e gli occhi di Ortensia si colmarono di lacrime. Si ricordò di un giorno che la nonna ricevette un regalo inaspettato e si era messa a piangere. La bambina l’aveva guardata e le aveva chiesto: “Nonna piangi perché non ti piace il regalo?” Ma la nonna aveva risposto: “No!, Il regalo mi piace tanto e piango perché sono felice”. Solo in quel momento, la bambina aveva compreso quel pianto.
Ortensia non si staccò da quella bambola per tutto il giorno, ma quando iniziarono a prepararsi per tornare a casa, la bambina divenne triste. Ma al momento di uscire quando la mamma le disse: “Adesso devi lasciare quella bambola a Marina, è sua!” Gli occhi della bambina si colmarono di lacrime e di nuovo sentì il dolore della perdita.
La zia si accorse e intervenne chiedendo alla figlia: “Marina visto che con quella bambola non giochi più, cosa ne dici di regalarla a Ortensia? Sembra che a lei piaccia molto”. Lei rispose con un cenno di indifferenza scuotendo le spalle.
Per tutto il viaggio la bambina non lasciò mai il giocattolo e arrivati a casa, la pulì con cura la pettinò e le tolse il vestito per lavarglielo. Poi stanca ed emozionata andò a letto stringendosi sul cuore la sua bambola nuda.