Rosalia dopo essere stata in silenzio per un po’, gli rispose: ” Avimu e stari attenti, nun si scherza cu u focu, poutemu abbruciari... illu jè trù oppu pericoloso. E tuni u sapi.”
Nino invece era convinto che quando Biagio avesse avuto la lettera nelle sue mani e la certezza che Rosalia rinunciava all’ eredità della madre, non aveva più motivi per farle del male. Quindi cercò di convincerla, ma non ci fu verso di fargli dare la missiva, anzi lei indispettita dalle pressioni di Nino, se ne andò lasciandolo solo e borbottando: “ Possibili chi chisti mà sculi nun capisciunu nenti.”
Rientrò in casa e trovò che Assuntina aveva già apparecchiato, di solito non lo faceva mai, infatti alcuni compiti nella casa venivano svolti da Totuccia e da Rosalia. Questa guardò la tavola e vide che c’ erano solo tre piatti, allora senza dire nulla andò a prenderne un altro e lo mise al posto dove abitualmente si sedeva la madre, questo fra gli sguardi attoniti della zia e di Nino, poi aggiunse: “ U posto ri me matri jè chistu… jè deve è sseri sempri apparecchiato, idda jè ca cu nuatri, nun mi lassa sula… idda jè a mo fù orza…”
Nino si sedette e la invitò: ” Assettati, chi manciamu, Assuntina vè ni puru to.”
Consumarono il pranzo nella più totale malinconia e tristezza, solo la piccola ogni tanto balbettava qualcosa facendoli sorridere.
Avevano quasi finito, quando sentirono qualcuno bussare con prepotenza alla porta. Nino disse: ” Vaiu iu… vogghiu propriu vì riri cu tuppulia (bussa) sì enza rispì ettu…”
Si trovò davanti Biagio, gli si gelò il sangue, questi non aveva l’ aria di avere buone intenzioni anzi, gli diede uno spintone ed entrando di prepotenza sbraitò: “ Accussì si mantengono i patti? Allura sugnu venutu iu pi arricurdari chiddu chi rissi…”
Assuntina sentendo quelle urla si fece avanti: “ Ninu cu jè? N’ amicu to’? “
Si affacciò alla porta anche Rosalia e vedendolo esclamò: “ Chistu jè tutto menu chi amicu…ù ora vaiu pi pigghiari chiddu chi vvoi, haju attruvatu!”
Assuntina preoccupata continuava a domandare chi fosse, ma Biagio la zittì: ” Nanna tà stari muta… vattinni.”
Intervenne Nino: “ Faciti comu vi disse, siè nti a mia.”
La donna vedendo la faccia tesa di Nino ubbidì e se ne andò in cucina, ma restò in ascolto per capire cosa stesse succedendo. Rosalia prese in un attimo la lettera con la chiave e la diede a Biagio dicendogli: ” Teni e vattinni nun vogghiu cchiù vì riri a to laria facci insinu a quantu vivu…”
Biagio gliela strappò quasi dalle mani, iniziò a leggerla, poi con lo sguardo pieno d’ odio si rivolse a Rosalia: “ Accussì chidda vecchia arrusa (prostituta) avi pensato beni ri rari a tia tuttu chiddu chi jè meu, comu facisti? Nzoccu i avi rittu pi fari ca si scurdau ri meu…”
“ Iu nun fici nenti, facisti tuttu tu, idda crì dia chi tu fussi mortu e iu nun vogghiu nenti da mali genti comu vuatri.”
Lui allora preso dall’ ira fece per aggredirla ma fu fermato da Nino, il quale si mise in mezzo dicendogli: ” Avi avuto chiddu chi vulivi e ù ora vattinni e chi lu nfernu ti abbrucia.”
Biagio con lo sguardo come se li avesse voluti fulminare se ne andò velocemente. Rosalia scoppiò in lacrime e Nino la strinse forte a sé. Vedendola soffrire in quel modo si sentiva impotente e non sapeva cosa fare per darle un po’ di conforto, in quel momento niente e nessuno poteva farlo, ci sarebbe voluto un miracolo.
Assuntina avendo ascoltato ogni singola parola pretese una spiegazione: “ Uora vogghiu sapiri tuttu…”
Non c’ era possibilità di sfuggire alla richiesta perentoria della zia, cosicchè Rosalia con l’ aiuto di Nino le raccontò ogni cosa. Assuntina più ascoltava le rivelazioni della nipote più si sentiva colpevole di quello che le era accaduto, se solo l’ avesse fermata quel maledetto giorno in cui aveva deciso di partire, se solo avesse avuto il coraggio di affrontare tutto il paese, se solo… Erano troppi i se… a cui non poteva più dare un risvolto diverso. Era andata in tal senso forse perché doveva andare in quel modo.
Alla fine del racconto Assuntina disse alla nipote: “ Figghia meu quanti ni avi passati, e a colpa jè puri mo e ri to matri.”
A sentire nominare la madre, Rosalia sbottò: ” Nun nominate me matri idda jè ‘ na vittima comu mia.”
Poi aggiunse: ” Haju nì esciri, haju pigghiari ‘ n picca ri aria, badate vuatri a la nica.”
Assuntina e Nino vedendola così sconvolta non se la sentirono di aggiungere altro e la lasciarono uscire da sola raccomandandole di fare attenzione e di non allontanarsi troppo. Anche se era primavera inoltrata, il tempo faceva le bizze e l’ aria era abbastanza fresca, così si ammantò con uno scialle nero di cotone ed si avviò verso il sentiero.
Aveva la mente in subbuglio e la morte nel cuore, in poco tempo aveva perso due delle persone a cui teneva maggiormente, Saro e sua madre e la pena era maggiore perché glieli aveva strappati una mano assassina. Chi aveva potuto compiere un gesto così crudele? Questa era la cosa che da quando era successa la tragedia le martellava in testa. Camminando si accorse di essere giunta presso il vecchio mulino, il cancello di legno era stato divelto, come se qualcuno l’ avesse volutamente buttare giù, ciò impensierì Rosalia, entrò nel giardino pieno di erbacce e che coprivano anche i fiori, nascondendone la loro bellezza. Sembrava che non ci fosse nessuno chiamò: ” Munidda… Munidda…”
Ma non avendo nessuna risposta si avvicinò alla casa, la porta era spalancata, Rosalia insistette a chiamare la vecchia tata, ma intorno solo il silenzio, che ad intermittenza veniva interrotto dallo starnazzare delle anatre e dalle galline sparse nell’ aia. Sul fuoco ancora il tegame con le sue infusioni d’ erbe prodigiose, che mandavano un odore nausabondo, questo era il segno che lei doveva essere nei paraggi.
Guardò in casa nelle altre stanze ma non c’ era, uscì nuovamente fuori e si diresse al granaio, il vecchio ronzino mangiava lì davanti il suo fieno, incurante della sua presenza, ad un certo punto udì un flebile lamento provenire da dentro, con timore si avvicinò e si tappò la bocca per non urlare, Munidda era per terra, sembrava essere caduta dalla scala, si accorse subito della gravità del suo stato, si inginocchiò accanto a lei: “ Munidda… Munidda pi amuri ri Diu, arruspigghiati, chi jè successu…”
Lei aprì gli occhi con fatica e con un fil di voce le disse: “ Tà stari… e fari accura chi a serpi jè ‘ nta casa…”
Rosalia non riusciva a capire: “ Munidda, nun cumprè nnu, chi jè a serpi?” Purtroppo dopo un ultimo respiro spirò, portando con sé per sempre il suo segreto e molti altri. Rosalia corse fuori e si guardò intorno se riusciva a vedere qualcuno che la potesse aiutare, ma essendo una zona isolarta, non riuscì a trovare anima viva. Urlò: “ Aiutu… Aiutu cc’è qualchi unu chi mi po’ aiutari…?”
Aveva perso quasi le speranze, quando ad un certo punto udì un carro cigolare che si avvicinava, era Liborio, il quale appena la vide sconvolta, si fermò e le chiese: “ Rusalia chi faciti ccà?”
Lei gli raccontò che aveva trovato Munidda stesa nel granaio e che molto probabilmente era caduta accidentalmente dalle scale ed era lì per terra morta. Liborio cercò di calamarla ed insieme si dirissero verso la tata. Purtroppo anche lui constatò che era morta e che era stato sicuramente un incidente.
In questo frangente fece delle domande a Rosalia: “ Quannu l’ avi attruvata era già morta? Ti avi parratu…?”
Lei rispose: ” Nenti, nun mi risse nenti, avi sulu dittu serpi… e dù oppu jè morta.”
Liborio disse che avrebbe avvertito subito il barone ed anche se in passato avevano avuto dei dissapori, Munidda era stata la persona che di fatto lo aveva cresciuto. Mentre la baronessa si disinteressava completamente di lui, Munidda lo aveva allevato come un figlio. Ed è per questo motivo che sicuramnte don Vincenzo avrebbe provveduto anche ai suoi funerali.
Liborio andò in paese per avvertire i carabinieri e per informare anche don Anselmo perché facesse suonare le campane. Così le campane del piccolo paese tintinnavano ancora una volta a morte, ormai da quasi un mese non si sentiva altro, una scia di morti tragiche, che gettavano un ombra sinistra nelle case e nelle vie del piccolo centro siciliano.
Il sacerdote ogni domenica iniziava l’ omelia con un discorso di commemorazione per il defunto e ogni volta faceva la stessa raccomandazione, se qualcuno avesse visto o sentito qualcosa, di andare a riferirlo ai carabinieri, senza aver timore e puntalizzando che questa era l’ unica strada da percorrere per trovare l’ assassino, non solo di Saro e di Totuccia ma ormai si era fatta piede la consapevolezza che anche l’ incendio scoppiato da Ninetta era stato di natura dolosa.
Nel frattempo Rosalia era ritornata a casa ed aveva riferito quello che era capitato a Munidda. Assuntina ascoltò il racconto della nipote mentre nella sua mente si faceva strada un dubbio atroce, forse quello della tata non era stato un incidente. Tutte le persone che erano morte avevano qualcosa che li accumunava, non poteva essere solo un caso.
Invece Rosalia ripensava alle ultime parole della tata: “ A serpi jè intra a casa…” A chi si riferiva? Chi era il serpente annidato dentro la casa? E la casa di chi?
E poi l’ avvertimento di stare attenta, quindi la persona che Munidda alludeva poteva fare del male anche a lei. Questo non fece altro che accrescere in lei l’ apprensione e la paura.
Nella piccola caserma, il maresciallo Calogero prese la deposizione di Liborio facendola trascrivere dal brigadiere Costa, ma il braccio destro del barone raccontando i fatti, senza apparente motivo, almeno così sembrava, aveva ommesso che a trovare la povera tata era stata Rosalia, forse per non coinvolgerla, vista la situazione alquanto complicata. Sta di fatto, che riferì che si trovava nei pressi del vecchio mulino per controllare alcuni canali per l’ irrigazione dei campi del barone, quando aveva sentito dei lamenti, si era avvicinato e così aveva fatto la macabra scoperta.
Il carabiniere prese atto di quanto raccontato e lo congedò dicendogli di stare a disposizione nell’ eventualità che ce ne fosse stato bisogno. Liborio ritornò al maniero e trovò Don Vincenzo nella stalla dei cavalli, stava accarezzando il vecchio cavallo Sanfratellano, una razza proveniente appunto dal Comune di San Fratello in provincia di Messina, l’ equino di nome Truò nu (Tuono) era il preferito di Totuccia e quando andavano a fare delle passeggiate lei soleva montare proprio quello. Gli stava parlando quasi come se l’ animale capisse: “ Cavaddu mo, manca puri a tia l’ amuri meu, comu fazzu ù ora a vì viri sì enza cchiù sonni, idda jè stata a raggiuni ri a vituzza mo…”
La voce si incrinò dal pianto quando si accorse della presenza di Liborio: ” Ccà si?”
Liborio: “ Haju a dari a vuatri, ‘ n là ria nutizzi, Munidda jè morta, jè truppicata a scaluna.”
A Don Vincenzo, come supponeva Liborio gli dispiaque moltissimo della disgrazia accaduta, nonostante tutto voleva molto bene alla tata: “ Penso iu a tutto, pi mia era comu ‘ na matri e ù ora annumu chi a vogghiu vì riri.”
Un gruppo di paesani erano andati a salutare la salma di Munidda, il barone nel frattempo aveva incaricato Binuzzu, il cassamortaru in modo che provvedesse a tutto, il feretro era stato posto nella stanza più grande, prima però aveva dovuto far togliere tutte quelle cianfrusaglie che la tata raccoglieva un po’ dovunque… poi, siccome non aveva parenti o almeno così sapeva il barone, chiamò le “ prè fiche” cioè le donne pagate per piangere Munidda.
Fra i finti lamenti e lacrime si svolse il funerale della tata, una cerimonia breve e con un corteo composto da pochissime persone, ma nonostante ciò, la sola presenza del barone, dava lustro e maggior rispetto alla defunta.
Assuntina fu una di quelle persone che partecipò al rito funebre, in passato quando la sorella era al servizio dei baroni, aveva avuto modo di conoscerla e sapeva che si era dedicata a Totuccia come aveva fatto con Don Vincenzo. Mentre accompagnavano il carro funebre al cimitero, osservò tutti gli altri paesani presenti, ma la sua attenzione fu catturata dal barone e da Liborio. Don Vincenzo era provato, in poco tempo erano morte due persone che avevano significato moltissimo per lui, Totuccia e Munidda, al contrario Liborio che gli camminava accanto, aveva un’ espressione che non faceva trapelare nulla, nessuna emozione, distaccato, indifferente e con uno sguardo freddo da far venire i brividi. Ciò fece meditare la donna, Totuccia aveva sempre parlato di lui come un uomo buono, arrendevole, servizievole, senza pretese, che si accontentava di quello che gli veniva dato ed alcune volte era veramente poco. Spesso durante la pausa pranzo veniva chiamato con urgenza dai signori e lui sempre pronto saltava il pasto, questo succedeva spesso. Oppure di notte veniva svegliato perché un cavallo era fuggito o solo perché il barone voleva fare una passeggiata notturna. Invece, osservandolo in quella circostanza, la descrizione di Totuccia non combiaciava, Assuntina disse fra sé: ” Va beni l’ aspettu po’ ngannari…” E così dicendo non ci pensò più.
Da quel giorno non ci furono altri eventi drammatici, tutto si svolse come sempre Assuntina e Rosalia mandavano avanti la loro tenuta con l’ aiuto di Nino, la piccola cresceva a vista d’ occhio e somigliava sempre più a suo padre Saro. Anche nel piccolo paese appariva tutto normale ma l’ ombra di quello che era successo sovrastava come un cielo nero tutti gli abitanti. Si evitava di parlarne per paura che l’ assassino potesse vendicarsi e soprattutto non sapendo chi fosse non si fidavano più di nessuno.
Nel frattempo, più su in collina, nel convento di Santo Spirito, Padre Bernardino con gli altri frati si occupavano del piccolo Giuseppe, il quale si era affezionato e non mostrava nessun disagio a vivere con loro. Ogni tanto piangendo cercava la mamma ma poi subito gli tornava il sorriso. I frati ancora non erano scesi in paese e non sapevano nulla della morte atroce di Ninetta e della scomparsa del suo bambino.
Una mattina sentirono qualcuno bussare al grande portone, Padre Agostino andò ad aprire e si trovò davanti a Liborio: ” Liborio vuatri ccà? Cu vi avi mandatu, u baroni?”
Lo conoscevano bene perché spesso Don Vincenzo mandava loro dei cesti pieni di prodotti dei suoi campi, e non solo, li sosteneva anche con del denaro.
Liborio porse al frate la grande cesta: “ Chistu vi u manna Don Vincenzo cu i so saluti. Ma nun mi fati trasiri?”
Il frate era in difficoltà, di solito lo faceva entrare e gli offriva un bicchierino di Marsala ma ora non poteva rischiare che qualcuno potesse scoprire la presenza del piccolo: “ Uora semu pi preghiera nun po’ trasiri…”
Liborio annuì e dopo averlo salutato riprese la via.
Prima di ritornare al maniero si fermò al vecchio mulino ed entrato nel granaio iniziò a cercare qualcosa, rovistò fra la paglia, nei mucchi di fieno e finanche nei sacchi di favino che Munidda aveva per i suoi animali. Furioso per la sua ricerca vana sbraitò: “ Viecchja mà gara, mò ri a nfernu pi lu infinitu.”
Dopodichè fece ritorno alla tenuta, trovò il barone che lo stava cercando e che questa volta alzò la voce: ” Unni minchia si statu? Uora chista jè ‘ n rè gola nova? Te ni otinni e nun rici nenti unni stai iennu?”
Liborio: ” Mi scusassi ma avì a ‘ na cù osa da fari…”
Don Vincenzo: ” E cu era chista cù osa? Cu me nun ci aviri è ssiri sicreti… capisti?”
Il comportamento insolito del fedele Liborio non convinceva il barone. Iniziò a sospettare che gli stesse nascondendo qualcosa e non era certo una cosa da sottovalutare.
Lui mantenendo la sua solita calma apparente gli rispose: ” Iu nun fici nenti di sigretu, sunnu annatu a lu cummì entu di Santo Spirito pi purtari ‘ n po’ ri cosi.”
Don Vincenzo salì in groppa al suo cavallo e lo lasciò in mezzo all’ aia senza nemmeno salutarlo.
Liborio lo guardò con odio e disse: ” Ancù ora nun avi vistu nenti, ancù ora u bellu avi vè niri…”