In ansia percorse l’ ultimo tratto di strada, per sua fortuna, in giro non c’ era quasi nessuno, un vento gelido spazzava le ultime foglie rimaste accartocciate ai lati delle vie, sollevandole in un grande polverone. Dai tetti usciva il fumo acre dei focolari accesi, la maggior parte della gente per il freddo era rintanata in casa. Rosalia arrivò davanti alla bottega delle spezierie, dentro una donna anziana era intenta a sistemare dei vasetti contenenti alcune spezie. Rosalia entrò e le chiese: “ Bon jornu, vulissa ‘ n oncia di crusca pi lavari a nica.”
Bastiana riconoscendola rispose con astio: “ A vuatri nun vi darei nenti ma chistu jè u’ me mestiere e quinni nun mi pozzu rifiutare, tenete ma nun fi fate cchiù vì riri rintra a mo putì a. Ninetta jè amica mo…”
Rosalia con sarcasmo le disse: ” Si vadda chi siti ‘ na fimmina cu ‘ n ranni cori, vi ringrazio assai chi mi aviti fattu chistu favori.”
Bastiana furiosa ribatté: ” Teni e vattinni, nun vogghiu nenti a chi fari cu cu ruba i mariti di navutri.”
Rosalia posò il denaro sul bancone, ma prima di uscire le sbraitò: ” Nun u sapiti chi u gabbo coglie?”
Agitata per come era stata trattata, ebbe un capogiro e dovette poggiarsi al muro per non cadere, quando sentì qualcuno che la sorreggeva da un braccio, dicendole: “ Figghia mo, vè ni cu me pi cresia chi u Signuri nun voli nuddu pirdutu.”
Era Don Anselmo che vedendola in difficoltà voleva darle un po’ di conforto, conosceva bene la vera storia di Rosalia e sapeva anche che la ragazza non era a conoscenza della verità, inoltre il fatto che le era accaduto, l’ aveva resa anche molto fragile, difatti se apparentemente si atteggiava da donna vissuta, in realtà era una ragazza impaurita, finita in una situazione più grande di lei. Inoltre, tutto quello che la circondava, la faceva sentire una persona sporca e da tenere a distanza. Rosalia riprendendosi lo rassicurò: “ Nun jè nenti Don Anselmo, jè tuttu passatu… jè stata a stanchezza e u friddu. Nun pozzu vì eniri pi cresia, a quest’ ora a casa mi stannu aspettando.”
Lui le disse: ” Va beni sarrà pi ‘ n altra vù ota ma si vvoi parrari cu qualcuno iu sugnu ca.”
La vide allontanarsi velocemente e provò un immenso dispiacere per quell’ anima sperduta. Rosalia s’ incamminò per la via, era stata una mattinata piena d’ imprevisti ed emozioni e sperava che fosse finita lì. Aveva svoltato per una scorciatoia che le permetteva di arrivare prima, questa mulattiera era a ridosso di una grande tenuta, dove nel mezzo si ergeva un grande maniero, uno di quei palazzi signorili di campagna, Rosalia lo conosceva perché da bambina andava con la madre, lì vicino a raccogliere le fragoline di bosco, ma quando lei incuriosita le domandava chi abitasse in una casa così bella, lei rispondeva con tristezza e determinazione: ” Genti tinta, assà i tinta, tu nun ti devi mai avvicinari a iddi, mi capisti? Iddi sunnu capaci ri tuttu macari a farti mali.”
Lei da bambina non riusciva a capire perché quella gente era così cattiva, ma ascoltava sua madre e non si avvicinò mai più a quelle terre. Ora mentre attraversava questi immensi campi, le vennero in mente le parole di Totuccia, e si chiese perché la madre aveva tanta paura di quella gente. Si era appena avvicinata al grande cancello di ferro battuto, quando notò il carro dell’ uomo che aveva incontrato prima, lo riconobbe perché non era un carro comune, era tutto decorato con strane figure di uomini a cavallo in una battuta di caccia e in più aveva uno stemma dorato inciso su entrambi i lati. Stava quasi per lasciare la mulattiera quand’ ecco che sentì qualcuno che urlava, c’ era un gruppo di braccianti concitati che parlavano fra loro, qualcuno alzando la voce più degli altri, giacché apparve “ U barone”. Il quale si rivolse agli uomini: “ Chi aviti? A mangiatoia trù oppu vascia? Para chi nun vi fazzu mancari nenti, i piccioli vi li do puntuali, gli orari nun sunnu da schiavi… e allura?”
Uno del gruppo trovò il coraggio di parlare e rispose: “ Vvossia cc’ ava perdonare ma macari si semu pi nvè rnu u travagghiu jè trù oppu e nuatri pochi… c’è bisù ognu ri altre braccia e macari ri donne pri la ricota di li arance.” Un altro prese la parola: “ Don Vincenzo, nun vi vulemu mancar iri rispì ettu ma si nun prendete altra genti nuatri da rumani nun vinemu.”
Il barone a quel punto promise che ci avrebbe pensato e riuscì a calmare gli animi. Poi il gruppo si separò e ognuno ritornò alle proprie mansioni. Rosalia assistette a tutta la scena e capì che il barone non era poi una persona così cattiva come le aveva detto sua madre, anzi, pensò che era stato abbastanza accondiscendente e disponibile ad ascoltare le richieste dei suoi uomini. Dopo circa una mezz’ ora di cammino arrrivò finalmente alla cascina, con una certa apprensione, già s’ immaginava i rimproveri che le avrebbero fatto. Aveva appena aperto la porta di casa, che sentì le grida di Totuccia: “ Unni si andata? Ci hai misu ‘ na vituzza, eramu pi pena, pensavamo chi ti fussi successu qualcuosa e poi a nica chianci e nun sapemu cù osa avi…”
Rosalia non aveva mai visto la madre così arrabbiata con lei, nemmeno quando aveva saputo che era incinta. Tuttavia anche se capiva che aveva ragione, non riuscì a trattenersi: “ Matri aviti raggiuni, ma nun sunnu cchiù ‘ na picciridda ma ‘ na matri comu vuatri… Sacciu abbadari a mia stissa.”
Totuccia rincarò la dose: “ Vitti comu sai abbadari a tia stissa, e ca mi fermo.” Alle sue parole Rosalia sentì un nodo alla gola e una gran voglia di fuggire per non essere più giudicata ed invece continuò: “ Propriu tu parri chi l’ hai fattu apprima ri me.”
Si pentì subito delle sue parole vedendo la madre mortificata, ma invece di scusarsi scappò in camera sua a piangere. Piangeva di rabbia per lei, per la madre e per essersi comportata come gli altri. La zia stranamente era rimasta in silenzio ascoltando il rimprovero della sorella, solo più tardi era salita di sopra per chiamare Rosalia per il pranzo: “ Rusalia scendi sutta chi jè pronto pi mancì ari…”
Lei le disse:” Nun haju fami!”
Assuntina continuò: ” Ragioni comu ‘ na picciridda, chi fai i capricci, scendi chi to matri jè dispiaciuta.”
Dopo un attimo di esitazione seguì la zia, la madre le teneva il broncio e la guardava di nascosto, lei faceva la stessa cosa. La zia a quel punto esclamò: “ E chi semu a ‘ n funerale? Mi para chi nun fussi mortu nuddu, ancù ora semu tutti vivi… Rusalia passami u pani e mancia chi si raffredda.”
Continuarono il pranzo in assoluto silenzio rotto solo dal gorgoglio della piccola che ogni tanto lanciava gridolini. Rosalia aveva delle domande da fare alla madre, ma non voleva contrariarla ancora di più, allora cercò un modo di arginare il discorso, indirizzandolo però dove voleva arrivare lei: ” Chista matina fici ‘ n incontro, mi si jè avvicinato ‘ n omu cu u carro, e mi avi chiesto si volevo accompagnata o paì si, iu rifiutai, poi haju saputo chi era u barone.”
Appena pronunciato quel nome la zia e la madre si guardarono, poi Totuccia rossa in viso dalla collera le urlò: “ Pi chista casa nun si nomina u diavolo, mi capisti? E iddu u jè, nun u devi cchiù ammuntuari.”
Totuccia era sconvolta l’ ultima cosa che avrebbe voluto era che la figlia scoprisse tutta la verità.
Rosalia restò alquanto sorpresa dalla reazione della madre capì che il barone aveva a che fare con lei, ma non sapeva il perché. Si fece coraggio domandandole: “ Matri picchì vi fa tantu paura, nun mi jè sembratu tintu.” Totuccia come impazzita urlò: ” Haju nì esciri, si no fazzu qualcuosa ri cui mi pentirò.”
Detto questo uscì di casa lasciando Rosalia senza parole.
L’ unica persona che poteva aiutarla a conoscere la verità era Assuntina, la quale fino ad allora non aveva detto una sola parola, Rosalia le si rivolse con garbo: ” Zia vuatri ù ora mi duviti diri chi c’ entro iu cu u barone e picchì me matri reagisce accussì, iu haju u diritto ri sapiri.”
La guardò con occhi supplichevoli dicendole: ” Vi prego a mo vituzza jè già cassariusa almì enu haju vì riri ‘ n po’ ri luci.”
Ad Assuntina faceva molto pena la nipote che per colpa loro era vissuta nella menzogna, adesso era giunto il momento che sapesse tutto, anche a costo di farle del male, le disse: ” U celu fici ‘ n voto cu a terra, chi nenti po’ restari ammucciatu pi sempri. Vè ni assettati ca vicinu a mia, e ù ora ti dirò chiddu chi vvoi sapiri, ma ti avverto nun jè facili.”
Rosalia era impaziente di conoscere questo segreto e le disse: ” Sunnu ca vi ascolto.”
Benchè avesse timore di sapere, nello stesso tempo si domandava se era più giusto vivere nell’ inganno o affrontare la verità anche se scomoda.
Sicuramente preferiva la seconda opzione, era stanca che gli altri fossero a conoscenza e lei no.
Così mentre Rosalia cullava la figlia nella “ Naca” dondolandola, la zia iniziò il racconto: ” Devi sapiri chi to madri da nico era trù oppu bedda, somigliava a tia, capiddi lunghi nerissimi e dui ù occhi grandi chi quannu ti guardavano ti facì evanu pì erdiri a tì esta. Patri a mandò a servizio unni Don Ugo, u barone. Jè chiddu fu u primu sbaglio ma si conoscessimo u futuru tanti cosi nun si farebbero.”
Mentre stava parlando arrivò Totuccia la quale disse:” Nun pinsari a mia, continua a raccontare a storia, tantu apprima o duoppu Rosalia doveva sapiri.” Assuntina rivolgendosi alla sorella le domandò: “ Si sicura? Nun jè chi ti fazzu mali?”
Totuccia la esortò a continuare: ” U barone avì a ‘ n figghio dell’ età ri ‘ to matri, Don Vincenzo, beddu comu u suli. Totuccia e Vincenzo si innamorarono pazzamente, e cercarono ri ammucciari u iddi amuri, infatti nun si era mai visto chi ‘ n nobile si maritasse cu ‘ na popolana. Purtroppo a tata,‘ na certa Munidda, riferì tuttu o vì ecchiu barone. Successe a fini du munnu, u barone acchiappò so figghiu, e gli proibì di rivedere a Totuccia, infine u mandò da certi parenti a Palermo. ”
Assuntina si fermò nel racconto, questa brutta storia faceva male non solo alla sorella ma anche a lei, domandò a Rosalia:” Vvoi chi continuo? A storia nun finisce ca. A Don Ugo piaceva assai Totuccia e a so raggia nei confronti du figghiu era cchiù pi gilusì a chi à utru. Infatti, nun a mandò via, anzi i disse chi da quel momentu si doveva occupare sulu ri iddu. To matri avì a paura ri iddu e cercava ri stari lontana ma purtroppo nun bastò. ‘ Na ntti mentri dormiva nta so lì ettu, sentì ‘ na mano chi i tappava a vucca e ‘ n corpo supra u so. Cercò ri liberarsi ma iddu era cchiù forti, accussì a prese cu fù orza… Duoppu quannu finì i disse: Tu ù ora a stari muta, nuddu deve saperi nenti, mi capisti?”
Da chidda vù ota nun ci fu ‘ na sula notti chi nun riceveva a visita du barone. Ma nun poteva parrari, avì a paura e si poi u veniva a sapiri a baronessa… E accussì accaddè ‘ na notti foru sorpresi da Fimmina Filomena. Chista gridò a Totuccia: Pigghia i to’ stracci e vattinni e nun ti fari vì riri cchiù. Accussi idda comu ‘ na ladra fu cacciata china ri viriù ogna e cu a panza china picchì si era accorta chi aspettava ‘ n picciriddu.”
Rosalia dal racconto della zia rimase scossa, sentiva il terreno sprofondare sotto i piedi, quindi lei era frutto di una violenza. Assuntina quasi leggendole nel pensiero le disse: ” Figghia mo sacciù cù osa stai pinsannu, ma nun jè accussì, Totuccia vè ni ca ù ora tocca a tia parrari.”
Rosalia domandò: ” Chi à utru haju sapiri?”
“ Quannu hannu mandato via a Don Lenzu iu già ero ‘ ncinta ri te, quinni tu si figghia ri Don Lenzu. Iddu nun u sapi e nun dovrà mai saperlo, tu si sulu figghia mo, iu t’ haju allevato da sula e sì enza nuddu meno to zia. Quinni mi raccomando chiustu jè e deve ristari ‘ n nnostru sicretu.”
Come si sbagliava Totuccia, Don Vincenzo era a conoscenza di tutto, aveva sempre amato a Totuccia e non l’ aveva mai dimenticata, nemmeno quando il padre lo costrinse a sposarsi con una nobildonna di un paese vicino. Aveva delle persone fidate a suo servizio che avevano il compito di informarlo di tutto ciò che riguardava Totuccia e anche se non poteva starle vicino, il fatto di conoscere quello che le accadeva gli dava l’ illusione di viverle accanto. Poi quando tornava alla tenuta del padre si nascondeva per vedere sua figlia. La vedeva diventare sempre più grande ogni volta che ne aveva l’ occasione. E quella volta che si era smarrita nel bosco, ed era rimasta intrappolata nei rovi, e lui l’ aveva aiutata a liberarsi avrebbe voluto abbracciarla e dirle che era suo padre. Ora dopo la morte del vecchio barone aveva ripreso a vivere al maniero, occupandosi delle terre. E quel giorno quando l’ aveva rivista così bella come la madre, il cuore gli era scoppiato nel petto dall’ emozione. Cionostante sapeva bene che Totuccia non gli avrebbe mai permesso di rientrare nella sua vita.
Dopo il sofferto racconto, Rosalia adesso iniziava a capire molte cose, come l’ odio di Totuccia verso quelle persone, tutta la sofferenza che aveva dovuto subire per i soprusi del barone, la sua fragilità nel non aver saputo difendersi come donna e aver rinunciato alla sua felicità. Inoltre comprendeva anche il nonno che aveva cercato in tutti i modi di proteggerla da quella gente e dalla loro malvagità. Tuttavia qualcosa non le tornava, perché quell’ incontro da bambina, con il barone nel bosco, e quella mattina per strada, era tutto molto strano. Del resto aveva ragione la madre, doveva stare lontana da quelle persone.
In ansia percorse l’ ultimo tratto di strada, per sua fortuna, in giro non c’ era quasi nessuno, un vento gelido spazzava le ultime foglie rimaste accartocciate ai lati delle vie, sollevandole in un grande polverone. Dai tetti usciva il fumo acre dei focolari accesi, la maggior parte della gente per il freddo era rintanata in casa. Rosalia arrivò davanti alla bottega delle spezierie, dentro una donna anziana era intenta a sistemare dei vasetti contenenti alcune spezie. Rosalia entrò e le chiese: “ Bon jornu, vulissa ‘ n oncia di crusca pi lavari a nica.”
Bastiana riconoscendola rispose con astio: “ A vuatri nun vi darei nenti ma chistu jè u’ me mestiere e quinni nun mi pozzu rifiutare, tenete ma nun fi fate cchiù vì riri rintra a mo putì a. Ninetta jè amica mo…”
Rosalia con sarcasmo le disse: ” Si vadda chi siti ‘ na fimmina cu ‘ n ranni cori, vi ringrazio assai chi mi aviti fattu chistu favori.”
Bastiana furiosa ribatté: ” Teni e vattinni, nun vogghiu nenti a chi fari cu cu ruba i mariti di navutri.”
Rosalia posò il denaro sul bancone, ma prima di uscire le sbraitò: ” Nun u sapiti chi u gabbo coglie?”
Agitata per come era stata trattata, ebbe un capogiro e dovette poggiarsi al muro per non cadere, quando sentì qualcuno che la sorreggeva da un braccio, dicendole: “ Figghia mo, vè ni cu me pi cresia chi u Signuri nun voli nuddu pirdutu.”
Era Don Anselmo che vedendola in difficoltà voleva darle un po’ di conforto, conosceva bene la vera storia di Rosalia e sapeva anche che la ragazza non era a conoscenza della verità, inoltre il fatto che le era accaduto, l’ aveva resa anche molto fragile, difatti se apparentemente si atteggiava da donna vissuta, in realtà era una ragazza impaurita, finita in una situazione più grande di lei. Inoltre, tutto quello che la circondava, la faceva sentire una persona sporca e da tenere a distanza. Rosalia riprendendosi lo rassicurò: “ Nun jè nenti Don Anselmo, jè tuttu passatu… jè stata a stanchezza e u friddu. Nun pozzu vì eniri pi cresia, a quest’ ora a casa mi stannu aspettando.”
Lui le disse: ” Va beni sarrà pi ‘ n altra vù ota ma si vvoi parrari cu qualcuno iu sugnu ca.”
La vide allontanarsi velocemente e provò un immenso dispiacere per quell’ anima sperduta. Rosalia s’ incamminò per la via, era stata una mattinata piena d’ imprevisti ed emozioni e sperava che fosse finita lì. Aveva svoltato per una scorciatoia che le permetteva di arrivare prima, questa mulattiera era a ridosso di una grande tenuta, dove nel mezzo si ergeva un grande maniero, uno di quei palazzi signorili di campagna, Rosalia lo conosceva perché da bambina andava con la madre, lì vicino a raccogliere le fragoline di bosco, ma quando lei incuriosita le domandava chi abitasse in una casa così bella, lei rispondeva con tristezza e determinazione: ” Genti tinta, assà i tinta, tu nun ti devi mai avvicinari a iddi, mi capisti? Iddi sunnu capaci ri tuttu macari a farti mali.”
Lei da bambina non riusciva a capire perché quella gente era così cattiva, ma ascoltava sua madre e non si avvicinò mai più a quelle terre. Ora mentre attraversava questi immensi campi, le vennero in mente le parole di Totuccia, e si chiese perché la madre aveva tanta paura di quella gente. Si era appena avvicinata al grande cancello di ferro battuto, quando notò il carro dell’ uomo che aveva incontrato prima, lo riconobbe perché non era un carro comune, era tutto decorato con strane figure di uomini a cavallo in una battuta di caccia e in più aveva uno stemma dorato inciso su entrambi i lati. Stava quasi per lasciare la mulattiera quand’ ecco che sentì qualcuno che urlava, c’ era un gruppo di braccianti concitati che parlavano fra loro, qualcuno alzando la voce più degli altri, giacché apparve “ U barone”. Il quale si rivolse agli uomini: “ Chi aviti? A mangiatoia trù oppu vascia? Para chi nun vi fazzu mancari nenti, i piccioli vi li do puntuali, gli orari nun sunnu da schiavi… e allura?”
Uno del gruppo trovò il coraggio di parlare e rispose: “ Vvossia cc’ ava perdonare ma macari si semu pi nvè rnu u travagghiu jè trù oppu e nuatri pochi… c’è bisù ognu ri altre braccia e macari ri donne pri la ricota di li arance.” Un altro prese la parola: “ Don Vincenzo, nun vi vulemu mancar iri rispì ettu ma si nun prendete altra genti nuatri da rumani nun vinemu.”
Il barone a quel punto promise che ci avrebbe pensato e riuscì a calmare gli animi. Poi il gruppo si separò e ognuno ritornò alle proprie mansioni. Rosalia assistette a tutta la scena e capì che il barone non era poi una persona così cattiva come le aveva detto sua madre, anzi, pensò che era stato abbastanza accondiscendente e disponibile ad ascoltare le richieste dei suoi uomini. Dopo circa una mezz’ ora di cammino arrrivò finalmente alla cascina, con una certa apprensione, già s’ immaginava i rimproveri che le avrebbero fatto. Aveva appena aperto la porta di casa, che sentì le grida di Totuccia: “ Unni si andata? Ci hai misu ‘ na vituzza, eramu pi pena, pensavamo chi ti fussi successu qualcuosa e poi a nica chianci e nun sapemu cù osa avi…”
Rosalia non aveva mai visto la madre così arrabbiata con lei, nemmeno quando aveva saputo che era incinta. Tuttavia anche se capiva che aveva ragione, non riuscì a trattenersi: “ Matri aviti raggiuni, ma nun sunnu cchiù ‘ na picciridda ma ‘ na matri comu vuatri… Sacciu abbadari a mia stissa.”
Totuccia rincarò la dose: “ Vitti comu sai abbadari a tia stissa, e ca mi fermo.” Alle sue parole Rosalia sentì un nodo alla gola e una gran voglia di fuggire per non essere più giudicata ed invece continuò: “ Propriu tu parri chi l’ hai fattu apprima ri me.”
Si pentì subito delle sue parole vedendo la madre mortificata, ma invece di scusarsi scappò in camera sua a piangere. Piangeva di rabbia per lei, per la madre e per essersi comportata come gli altri. La zia stranamente era rimasta in silenzio ascoltando il rimprovero della sorella, solo più tardi era salita di sopra per chiamare Rosalia per il pranzo: “ Rusalia scendi sutta chi jè pronto pi mancì ari…”
Lei le disse:” Nun haju fami!”
Assuntina continuò: ” Ragioni comu ‘ na picciridda, chi fai i capricci, scendi chi to matri jè dispiaciuta.”
Dopo un attimo di esitazione seguì la zia, la madre le teneva il broncio e la guardava di nascosto, lei faceva la stessa cosa. La zia a quel punto esclamò: “ E chi semu a ‘ n funerale? Mi para chi nun fussi mortu nuddu, ancù ora semu tutti vivi… Rusalia passami u pani e mancia chi si raffredda.”
Continuarono il pranzo in assoluto silenzio rotto solo dal gorgoglio della piccola che ogni tanto lanciava gridolini. Rosalia aveva delle domande da fare alla madre, ma non voleva contrariarla ancora di più, allora cercò un modo di arginare il discorso, indirizzandolo però dove voleva arrivare lei: ” Chista matina fici ‘ n incontro, mi si jè avvicinato ‘ n omu cu u carro, e mi avi chiesto si volevo accompagnata o paì si, iu rifiutai, poi haju saputo chi era u barone.”
Appena pronunciato quel nome la zia e la madre si guardarono, poi Totuccia rossa in viso dalla collera le urlò: “ Pi chista casa nun si nomina u diavolo, mi capisti? E iddu u jè, nun u devi cchiù ammuntuari.”
Totuccia era sconvolta l’ ultima cosa che avrebbe voluto era che la figlia scoprisse tutta la verità.
Rosalia restò alquanto sorpresa dalla reazione della madre capì che il barone aveva a che fare con lei, ma non sapeva il perché. Si fece coraggio domandandole: “ Matri picchì vi fa tantu paura, nun mi jè sembratu tintu.” Totuccia come impazzita urlò: ” Haju nì esciri, si no fazzu qualcuosa ri cui mi pentirò.”
Detto questo uscì di casa lasciando Rosalia senza parole.
L’ unica persona che poteva aiutarla a conoscere la verità era Assuntina, la quale fino ad allora non aveva detto una sola parola, Rosalia le si rivolse con garbo: ” Zia vuatri ù ora mi duviti diri chi c’ entro iu cu u barone e picchì me matri reagisce accussì, iu haju u diritto ri sapiri.”
La guardò con occhi supplichevoli dicendole: ” Vi prego a mo vituzza jè già cassariusa almì enu haju vì riri ‘ n po’ ri luci.”
Ad Assuntina faceva molto pena la nipote che per colpa loro era vissuta nella menzogna, adesso era giunto il momento che sapesse tutto, anche a costo di farle del male, le disse: ” U celu fici ‘ n voto cu a terra, chi nenti po’ restari ammucciatu pi sempri. Vè ni assettati ca vicinu a mia, e ù ora ti dirò chiddu chi vvoi sapiri, ma ti avverto nun jè facili.”
Rosalia era impaziente di conoscere questo segreto e le disse: ” Sunnu ca vi ascolto.”
Benchè avesse timore di sapere, nello stesso tempo si domandava se era più giusto vivere nell’ inganno o affrontare la verità anche se scomoda.
Sicuramente preferiva la seconda opzione, era stanca che gli altri fossero a conoscenza e lei no.
Così mentre Rosalia cullava la figlia nella “ Naca” dondolandola, la zia iniziò il racconto: ” Devi sapiri chi to madri da nico era trù oppu bedda, somigliava a tia, capiddi lunghi nerissimi e dui ù occhi grandi chi quannu ti guardavano ti facì evanu pì erdiri a tì esta. Patri a mandò a servizio unni Don Ugo, u barone. Jè chiddu fu u primu sbaglio ma si conoscessimo u futuru tanti cosi nun si farebbero.”
Mentre stava parlando arrivò Totuccia la quale disse:” Nun pinsari a mia, continua a raccontare a storia, tantu apprima o duoppu Rosalia doveva sapiri.” Assuntina rivolgendosi alla sorella le domandò: “ Si sicura? Nun jè chi ti fazzu mali?”
Totuccia la esortò a continuare: ” U barone avì a ‘ n figghio dell’ età ri ‘ to matri, Don Vincenzo, beddu comu u suli. Totuccia e Vincenzo si innamorarono pazzamente, e cercarono ri ammucciari u iddi amuri, infatti nun si era mai visto chi ‘ n nobile si maritasse cu ‘ na popolana. Purtroppo a tata,‘ na certa Munidda, riferì tuttu o vì ecchiu barone. Successe a fini du munnu, u barone acchiappò so figghiu, e gli proibì di rivedere a Totuccia, infine u mandò da certi parenti a Palermo. ”
Assuntina si fermò nel racconto, questa brutta storia faceva male non solo alla sorella ma anche a lei, domandò a Rosalia:” Vvoi chi continuo? A storia nun finisce ca. A Don Ugo piaceva assai Totuccia e a so raggia nei confronti du figghiu era cchiù pi gilusì a chi à utru. Infatti, nun a mandò via, anzi i disse chi da quel momentu si doveva occupare sulu ri iddu. To matri avì a paura ri iddu e cercava ri stari lontana ma purtroppo nun bastò. ‘ Na ntti mentri dormiva nta so lì ettu, sentì ‘ na mano chi i tappava a vucca e ‘ n corpo supra u so. Cercò ri liberarsi ma iddu era cchiù forti, accussì a prese cu fù orza… Duoppu quannu finì i disse: Tu ù ora a stari muta, nuddu deve saperi nenti, mi capisti?”
Da chidda vù ota nun ci fu ‘ na sula notti chi nun riceveva a visita du barone. Ma nun poteva parrari, avì a paura e si poi u veniva a sapiri a baronessa… E accussì accaddè ‘ na notti foru sorpresi da Fimmina Filomena. Chista gridò a Totuccia: Pigghia i to’ stracci e vattinni e nun ti fari vì riri cchiù. Accussi idda comu ‘ na ladra fu cacciata china ri viriù ogna e cu a panza china picchì si era accorta chi aspettava ‘ n picciriddu.”
Rosalia dal racconto della zia rimase scossa, sentiva il terreno sprofondare sotto i piedi, quindi lei era frutto di una violenza. Assuntina quasi leggendole nel pensiero le disse: ” Figghia mo sacciù cù osa stai pinsannu, ma nun jè accussì, Totuccia vè ni ca ù ora tocca a tia parrari.”
Rosalia domandò: ” Chi à utru haju sapiri?”
“ Quannu hannu mandato via a Don Lenzu iu già ero ‘ ncinta ri te, quinni tu si figghia ri Don Lenzu. Iddu nun u sapi e nun dovrà mai saperlo, tu si sulu figghia mo, iu t’ haju allevato da sula e sì enza nuddu meno to zia. Quinni mi raccomando chiustu jè e deve ristari ‘ n nnostru sicretu.”
Come si sbagliava Totuccia, Don Vincenzo era a conoscenza di tutto, aveva sempre amato a Totuccia e non l’ aveva mai dimenticata, nemmeno quando il padre lo costrinse a sposarsi con una nobildonna di un paese vicino. Aveva delle persone fidate a suo servizio che avevano il compito di informarlo di tutto ciò che riguardava Totuccia e anche se non poteva starle vicino, il fatto di conoscere quello che le accadeva gli dava l’ illusione di viverle accanto. Poi quando tornava alla tenuta del padre si nascondeva per vedere sua figlia. La vedeva diventare sempre più grande ogni volta che ne aveva l’ occasione. E quella volta che si era smarrita nel bosco, ed era rimasta intrappolata nei rovi, e lui l’ aveva aiutata a liberarsi avrebbe voluto abbracciarla e dirle che era suo padre. Ora dopo la morte del vecchio barone aveva ripreso a vivere al maniero, occupandosi delle terre. E quel giorno quando l’ aveva rivista così bella come la madre, il cuore gli era scoppiato nel petto dall’ emozione. Cionostante sapeva bene che Totuccia non gli avrebbe mai permesso di rientrare nella sua vita.
Dopo il sofferto racconto, Rosalia adesso iniziava a capire molte cose, come l’ odio di Totuccia verso quelle persone, tutta la sofferenza che aveva dovuto subire per i soprusi del barone, la sua fragilità nel non aver saputo difendersi come donna e aver rinunciato alla sua felicità. Inoltre comprendeva anche il nonno che aveva cercato in tutti i modi di proteggerla da quella gente e dalla loro malvagità. Tuttavia qualcosa non le tornava, perché quell’ incontro da bambina, con il barone nel bosco, e quella mattina per strada, era tutto molto strano. Del resto aveva ragione la madre, doveva stare lontana da quelle persone.