Con il passar del tempo, mio padre, aveva imparato l’ arte del silenzio. Tale scelta era stata probabilmente rafforzata dal fatto che mia madre fosse un’ instancabile chiacchierona.
La sua taciturnità, a volte pesante come il piombo, era davvero emblematica perché, come scrive EliSabi, «il silenzio è la forma più alta della parola».
Mio padre comunicava attraverso il silenzio, i suoi occhi parlavano il linguaggio delle emozioni che le sue labbra non riuscivano a proferire.
Verso la fine degli anni Sessanta, quando morì mia nonna paterna e lui non poté tornare in Italia per il suo funerale perché la nostra famiglia stava attraversando da un punto di vista economico un periodo molto difficile, era diventato particolarmente nervoso e fumava una «Gauloise Caporal» dopo l’ altra.
Mi ricordo che le sue unghie erano diventate gialle come le foglie di un albero prossimo all’ inverno, dopo aver consumato tutte le sigarette del pacchetto di tabacco trinciato, andò a comprarne un altro, che iniziò a rollare con una grazia davvero straordinaria.
Appoggiava l’indice della sua mano rinsecchita e nodosa nella piega della cartina e usava l’altra mano per aggiustarla, accentuandone la piegatura, poi dopo averla riempita di tabacco trinciato la leccava ed infine, dopo essersi guardato attorno con circospezione, la accendeva con un vecchio accendino a benzina che emanava un puzzo insopportabile che rimaneva nell’ aria per molto tempo.
Ho anche cercato di scrivere una poesia che motivasse idealmente il suo silenzio:
«Il silenzio di mio padre/Il silenzio come espressione istintiva/di un uomo che s’inginocchia/davanti al mistero della vita./Alla bellezza di un cielo stellato./All’emozione di un amore/che toglie il respiro./Il silenzio come scelta di libertà./Mio padre era un uomo taciturno./Ricordo i suoi tristi silenzi/il suo odore di tabacco/e i suoi occhi di minatore».
Qualche giorno prima della sua dipartita, avvenuta il 26 gennaio 1974, intravidi mio padre pallidissimo che guardava fuori dalla finestra senza vetri e con gli scuri aperti, nonostante il freddo polare che imperversava.
«Papà, che cosa ti succede?», gli chiesi sottovoce.
Era molto raro che io mi rivolgessi a lui a tu per tu perché allora ero un adolescente ribelle e contestatore.
« Sergio, mi sa che questa volta smetterò di fumare per davvero», mi rispose con la sua voce rauca, tipica dei grandi fumatori.
Aveva intuito che stava per morire, ma non voleva che io mi preoccupassi eccessivamente per lui.
L’ uomo, il minatore, il padre ed il partigiano che coabitavano in lui, avevano aperto un labile spiraglio allo scambio di idee tra generazioni diverse.
Io, appartenevo a quella generazione che contestava i genitori, mentre lui aveva combattuto per la Resistenza per dare a tutti noi la possibilità di vivere in pace.
Due generazioni a confronto, nonostante mancasse l’ opportunità di dialogare.
Purtroppo, non seppi afferrare quell’ unica occasione, offerta dalla circostanza fortuita, e scelsi d’ andare a giocare a calcio con i miei amici.
Mio padre mi aveva parlato, davanti ad una banale finestra aperta, ed io non avevo colto il significato delle sue parole.
Per lui, le parole assumevano un significato diverso dalle mie, spesso pronunciate per il solo gusto di parlare per contraddire.
Io proferivo in continuazione parole deliranti e irreali, facevo riferimento al socialismo reale e alla pace del mondo, mentre lui aveva scelto di andare a combattere sulla Majella, nonostante i pericoli che tale scelta gli avrebbero comportato.
Rimpiango di non essere rimasto a parlare con lui, in quel pomeriggio d’ inverno, ma dopo tanto tempo sento ancora il desiderio di ringraziarlo per aver cercato di dialogare con me, nonostante io non abbia colto a volo il suo desiderio, forse inconscio, d’ avvertirmi che sarei cresciuto senza la sua presenza ed il suo appoggio psicologico.
Ho dimenticato il suono della sua voce, ma ogni volta che torno al paese, sento distintamente l’ odore della sua sigaretta rullata.
La sua lotta contro il nazifascismo, sulle montagne della Majella, la sua solitudine e, soprattutto il suo silenzio, appartengono alla mia storia e mi aiutano quotidianamente a lottare contro le ingiustizie del mondo contemporaneo.
Se potessi tornare indietro, rimarrei a guardarlo per ore, cercando di catturare quel velo d’ indescrivibile malinconia che velava i suoi occhi color nocciola.
Oggi, nonostante il Covid- 19, che imperversa nella società coeva, il suo silenzio avrebbe assunto le sembianze di una denuncia sociale contro la società basata sul chiacchiericcio e sul conformismo ideologico.
«Una rosa rossa, come scrive Oscar Wilde, non è egoista perché vuole essere una rosa rossa. Sarebbe terribilmente egoista se volesse che i fiori del giardino fossero tutti rossi e tutte rose».
Riposa in pace, padre, e che la terra ti sia lieve!