Francesco, detto Cicco de Mingascina era un oratore nato.
Riusciva ad incantare l’ ascoltatore grazie al timbro aggraziato della sua voce. Ogni argomento affrontato, nel corso dei suoi monologhi, era ricco di particolari accattivanti e circostanziati.
Si ricordava a memoria dei nomi di tutte le persone che aveva incontrato nella sua travagliata esistenza, delle date e delle situazioni in cui si erano svolti i fatti raccontati.
Ogni sua narrazione, era la sinossi di un film surreale girato nei meandri del suo cervello.
I fatti raccontati erano sostanzialmente veri, ma lui li condiva di particolari affascinanti, che li rendevano autentici e sofferti, anche se qualche volta si smentivano palesemente.
Nessuno osava contraddirlo perché le sue reazioni emotive erano a volte esplosive, soprattutto se aveva davanti a sé un interlocutore disattento o arrogante.
La mimica facciale del suo viso si adeguava alle fasi dirompenti delle sue storie e variavano a secondo dei contorni narrativi che riusciva ad affiancare ad ognuno dei suoi racconti.
Smetteva di parlare soltanto per accendere, con un minuscolo zolfanello, una « Nazionale» senza filtro che fumava sino a bruciarsi la punta delle dita della mano destra.
Le sue mani erano così affusolate che sembravano essere quelle di un pianista, anche se aveva svolto per tutta la vita l’ attività di contadino ad « Amardolce», dove era diventato proprietario di un ettaro di terra bruciata dal sole abruzzese, grazie soprattutto al suo lavoro di minatore in Belgio.
La sua pelle era ricoperta di piccole macchie bianche, ma nessuno ebbe mai il coraggio di chiedergli se avesse contratto qualche malattia cutanea.
A dire il vero, Francesco era fondamentalmente logorroico e pedante, ma io adoravo ascoltare le sue storie perché erano uno spaccato autentico dell’ Italia contemporanea, raccontata dalla calda voce di un cittadino pressoché analfabeta.
Riusciva a malapena a firmare un documento importante, ma quando parlava aveva il potere di catturare l’ attenzione dell’ ascoltatore.
Era come se recitasse la scena madre di una rappresentazione teatrale davanti ad un’ attenta platea di spettatori paganti.
Ero spesso il solo spettatore non pagante dei suoi show perché la maggior parte degli amardolcesi lo snobbava volutamente.
Il motivo di tale astio era presumibilmente dovuto soltanto al fatto che lui raccontasse sempre le stesse cose. Il loro atteggiamento nei suoi confronti non era di rancore, ma di sofferta condiscendenza.
Il fatto, inoltre, che ascoltasse il giradischi a tutto volume, in piena notte, soprattutto dopo la morte della prima moglie, gli aveva creato qualche dissapore passeggero con i vicini di casa più asociali.
In ogni modo, Cicco de Mingascina era una persona per bene che non era capace di fare del male neanche ad una mosca.
Soffriva di una solitudine devastante che lo spingeva a raccontare, a chiunque fosse disponibile ad ascoltarlo, gli episodi più esilaranti della sua vita, per colmare il vuoto che l’ ambiente psicosociologico in cui viveva gli aveva scavato attorno.
Francesco si sedeva spesso sulla sua minuscola sedia di paglia, dopo avere strigliato accuratamente « Bello», l’ asino al quale, come riferivano le malelingue più biforcute del paese, « teneva più che alla sua seconda moglie».
Era il 31 agosto del 2000, quando accadde un episodio che mi è rimasto in mente.
Ricordo perfettamente quella data perché fu proprio in quel giorno che seppi d’ aver superato l’ ultimo esame all’ Università di Bologna. Durante lo studio dell’ ostico esame di « Estetica» lo avevo un po’ trascurato, ma appena lo vidi seduto sulla sua minuscola sedia di paglia, mi resi subito conto che era particolarmente triste.
Fumava nervosamente una sigaretta dopo l’ altra, portandosi in continuazione le mani ai capelli.
Vidi subito che i suoi occhi, trasparenti come biglie di vetro, erano colmi di lacrime.
Mi guardò negli occhi e mi disse: « Sergio, è vero che con la carne degli asini fanno la mortadella?».
Lo guardai con apprensione pur non interpretando subito il significato della sua domanda.
Le domande erano bandite dal suo linguaggio, quando parlava del suo passato. Sembrava essere così sicuro di sé che ogni delucidazione sembrava superflua ed inutile. Ogni parola pronunciata occupava un posto chiave, all’ interno della frase, per cui l’ interlocutore di turno rimaneva ipnotizzato dalla sua destrezza verbale.
Rimasi in silenzio per qualche istante prima di rispondere perché sapevo che quella domanda doveva per forza avere un senso, anche se non riuscivo a decodificarne il valore, poi improvvisamente mi ricordai di « Bello», il suo amatissimo asino.
« Francesco, non sono un esperto di salumi, ma credo che la mortadella sia fatta prevalentemente di carne di suino».
L’ uomo smise improvvisamente di piangere, mi guardò dritto negli occhi e mi disse: « Oggi, al bar del Centro, mi hanno detto che con la carne di asino fanno la mortadella».
Per fortuna che mi ricordai, forse tardivamente, che l’ uomo aveva un asino al quale era molto affezionato per cui evitai di dirgli che esistevano anche la mortadella d’ asino ragusano, con l’ aggiunto di lardello di suino nero siciliano, gli sfilacci di asino, lo scamone di asino, la noce di asino ed il controgirello di asino.
La sensibilità di Francesco, deriso da alcuni giovani maleducati di « Amardolce», seduti perennemente davanti al « Bar del Centro» ed impegnati costantemente a pontificare sul futuro dell’ Italia, aveva traballato davanti alla loro affermazione ed aveva messo in dubbio una sua certezza.
Gli dissi che avevo letto su una rivista specializzata che i muli ed anche gli asini, essendo entrambi della stessa famiglia degli « Equidi», erano stati tolti dalle caserme nel 1993, dove avevano trasportato le armi pesanti di ogni genere per quasi un secolo, per ricollocarli in aeree protette.
Francesco mi guardò, con i suoi occhi trasparenti, e mi chiese a bruciapelo: « Li manderanno in una specie di paradiso, dopo aver passato tutta la loro vita a servire gli uomini?».
« Già, in una specie di paradiso costruito appositamente per gli asini ed i muli», gli risposi per fargli piacere.
« Pensa un po’, Francesco, che esiste anche la preghiera del mulo e dell’ asino…».
L’ anziano uomo fece finta di credere alla mia storiella.
Sulla preghiera del mulo e dell’ asino, non proferì parola perché, durante la Seconda Guerra Mondiale, ne aveva sentito parlare al fronte.
La situazione si era totalmente rivoltata: lui era diventato spettatore ed io, per una volta, narratore di una storia letteralmente inventata.
Qualche giorno più tardi, passando davanti al « Bar del Centro», sentii per caso che Francesco stava raccontando l’ aneddoto, che io gli avevo raccontato, ad una schiera di giovani ipnotizzati dalla sua straordinaria favella, affermando con dovizie di particolari che il suo asino « Bello» era andato in paradiso a fare compagnia agli angeli e che recitava la « preghiera del mulo e dell’ asino» alle attonite stelle.