L’ orto sul balcone
In un pomeriggio di noia piena cosa c’è di meglio se non farsi illuminare da una idea brillante anche se non propriamente originale? Nacque così, per caso, la voglia irrefrenabile dell’ orto sul balcone. In un giorno di metà giugno rientrai dal lavoro con parecchio anticipo, pregustando un pomeriggio di svago e completo relax, una sorta di regalo inaspettato dopo tanti giorni di lavoro arretrato da smaltire. Invece, varcata la soglia, l’ abbraccio del silenzio fu quasi un pugno nello stomaco e mi trovai a fare i conti con una casa vuota e stranamente quieta dove perfino il balcone, sul quale mi rintanai in cerca di sole, appariva spoglio e bisognoso di urgenti cure. Non avevo avuto voglia di comprare i soliti gerani, le peonie, le margherite, e in attesa dell’ ispirazione avevo rimandato troppo a lungo lasciandolo in uno stato pietoso. Così mentre curiosavo tra vecchi vasi e cartine di semi ormai defunti, in preda ad una paranoia totale, l’ ispirazione arrivò, folgorante e nitida: ma certo, perché non ci avevo pensato prima, cosa potevo sperare di meglio se non creare un bell’ orto sul balcone? Lo spazio in verità non era moltissimo, però avevo a disposizione diverse cassette di terracotta e poi avrei diviso le piantine una volta nate. Che meraviglia, le vedevo già cresciute e piene di ortaggi enormi e succosi …… e poi il mio balcone era a nord, ottimo per non far seccare le piante in estate e poi …. e poi….. quanti e poi e quanta ingenua euforia, se ci ripenso!
Ormai era nata e nessuno l’ avrebbe più frenata quell’ idea, mi conoscevo bene, come sapevo bene che quando quella vocina sottile suggeriva non c’ era niente e nessuno che mi facesse tornare indietro. L’ impresa aveva il sapore della sfida, sai come sarebbero rimasti di stucco parenti e amici? Memore dei consigli sparsi a profusione dal solito esperto televisivo in una trasmissione di qualche giorno prima, della serie “ raccoglierete di tutto e sarà facilissimo” pensavo di essere ormai espertissima anch’ io, inoltre i concetti di base bene o male li avevo assimilati e nella peggiore delle ipotesi internet sarebbe stata fonte inesauribile di consigli spiccioli e alla portata di mano, anzi di vaso!
Presa da febbrile eccitazione ero ormai invasata anch’ io e mi diedi da fare a ripulire per fare spazio e sistemare le cassette e i vasi più grandi. Scesi di corsa a comperare una quantità industriale di sacchetti di terra, poi svaligiai la dispensa facendo incetta di pomodori, peperoni e di tutto quello che, contenendo semi, nella mia spicciola fantasia fosse pronto da piantare. Ho detto fantasia non a caso, capirete poi il perché.
Tornata con armi e bagagli sul balcone, cominciai a cospargere terra nelle cassette e nei vasi. Quindi, pian pianino, diedi inizio all’ opera, passando direttamente alla fase semina. Presi un bel pomodoro, il più grosso, rosso e maturo, e con piglio deciso e senza troppi complimenti lo stritolai sulla prima vaschetta. Vuoi l’ imperizia, vuoi la mano malferma e l’ agitazione, i semini schizzarono ovunque, anche per terra, con un terrificante effetto cinematografico, tipo scena del delitto. Così impastati nel terriccio, minuti com’ erano, era davvero difficile spostarli e sistemarli ad una certa distanza l’ uno dall’ altro, ridotti ad ammassi informi e impiastricciati senza rimedio. Beh, pensai, quando nasceranno, perché sicuramente nasceranno, vedrò di dividere le piantine, cosa vuoi che sia! Riposi la vaschetta e dopo averle dato acqua a sufficienza e averla sistemata nell’ angolo più assolato, non ci pensai più.
Atto secondo fu la semina dei fagioli. Presi alcuni baccelli e li piantai in una seconda vaschetta, cercando di distanziarli un pochino. Annaffiai ben bene e passai alla terza semina e poi alla quarta e via così in una sorta di frenesia da coltivatrice diretta.
Tronfia del mio lavoro agricolo, stanca, sudata e sporca peggio di un bambino, appuntai sul calendario il giorno della semina. Patate, fagioli, peperoncini, pomodori, lenticchie avevano preso il posto di begonie e gerani e da quel giorno spiai la crescita con apprensione e trepidazione, accarezzando i miei vasi e sorvegliandoli con l’ amore di una chioccia, certa che avrei avuto la mia bella ricompensa. Annaffiavo e spostavo in continuazione le povere vaschette da un posto all’ altro per cercare di farle stare al sole qualche ora e poi riporle all’ ombra per non affaticarle con il caldo, ma a forza di girarle e cambiar di posto non mi ricordavo più che diamine ci fosse dentro, perché ovviamente avevo commesso un errore, ed era già il primo, di non mettere nessun segno di riconoscimento alle vaschette per ricordare che tipo di semi ospitassero.
Passarono pochi giorni, forse una settimana, finché un mattino trovai il primo germoglio. Era d’ un verde tenero e spingeva vigorosamente la terra per abbracciare il sole. Ero emozionatissima, guardavo il mio tesoro nemmeno fosse una cassa di dobloni lucenti, lo contemplavo con gioia e non osavo toccarlo per paura di sciuparlo. Avevo virtualmente partorito un “ esserino”, il primo della mia fatica di contadina fai da te. A dire la verità, a guardarlo con occhio critico, l’” essere” era davvero uno strano germoglio, una specie di panino oblungo assolutamente indecifrabile, che cercava di alzare la testa. La cosa comica è che questo marziano dalle due manine senza dita, un ET verde e muto non sapeva dirmi di che razza fosse, ed io non avevo lontanamente idea di cosa fosse spuntato, e nessuna voglia di ammetterlo, in fondo mi dicevo, questo era solo un dettaglio, tanto prima o poi l’ avrei capito. Come? Ma diamine, avrebbe pur messo qualche ortaggio no?? E allora la cosa sarebbe stata semplicissima.
Al momento l’ importante era l’ evento della prima nascita, dovevo festeggiare e non farmi influenzare dalla prima impressione, per cui mi ripresi subito, continuando a ripetermi “ Che meraviglia, ma com’è facile questa cosa dell’ orto, perché non ci ho mai pensato prima?” Nei giorni seguenti altri piccoli germogli vennero alla luce, avvolti nel più oscuro mistero. In una vaschetta c’ era stata una nascita abnorme, una sorta di praticello minuto e fitto, indecifrabile anch’ esso, fatto di foglioline piccole, lunghe e frastagliate.
A una settimana dal parto il primo “ simil panino” era ormai una graziosa piantina e nella stessa cassetta aveva avuto la gioia di veder spuntare altri due fratellini gemelli. Belli e diritti si slanciavano vigorosamente in alto, molto in alto, con due bellissime foglie verdi ciascuno, sbucate per magia al centro di quella specie di panino strano, molto strano.
Passarono due settimane e le mie cure erano assidue e senza posa. Poiché il “ toast” (così l’ avevo battezzato) cresceva talmente tanto da piegarsi su se stesso, capii che doveva trattarsi di una pianta che amava arrampicarsi. Quindi armata di vecchie asticelle per le tende, arrangiai una sorta di imbracatura facendo in modo di arrotolarcelo intorno e fissando le estremità alle inferriate. Il risultato era a dir poco tragicomico, ma in quel momento mi interessava vedere cosa sarebbe nato e dell’ effetto caos non mi curavo più di tanto. Il “ praticello verde” rimaneva tale, nonostante le annaffiature abbondanti e lo spostamento da un angolo all’ altro del balcone, avanzando con una lentezza esasperante. Nelle altre vaschette non è che la cosa andasse meglio, le piantine erano nate, è vero, ma su tutte aleggiava il segreto, specie se l’ occhio cadeva su un certo vaso dove non c’ era verso di vedere spuntare nulla. Mi avvicinavo, scrutavo, sistemavo la terra, la sfioravo, cercando con l’ indice un indizio di germoglio, spostavo il vaso, annaffiavo copiosamente, macché, niente da fare, zero assoluto, nemmeno l’ ombra di una foglietta minuscola, tanto per ricompensare lo sforzo materno. Il mistero era fitto e puzzava di marcio in tutti i sensi!
Alla quinta settimana, la situazione era in uno stallo imbarazzante, come imbarazzanti erano i commenti e le battutine salaci dei parenti e amici, ma la colpa era solo mia. Avevo sbandierato ai quattro venti della geniale trovata e di come fosse facile coltivare ortaggi e di quante piantine fossero nate e bla bla bla, in un cicaleccio infinito. Alcune occhiate ironiche non avevano scalfito la mia inossidabile certezza di raccogliere, di lì a pochissimo, il prodotto della mia fatica, che naturalmente sarebbe stato talmente abbondante da soddisfare me e quei miscredenti che ora sghignazzavano.
Già, abbondante, ma mentre sconsolata mi guardavo intorno, rendendomi conto di essere ormai a luglio inoltrato, dovetti ammettere che qualcosa non funzionava a dovere. Le piante vegetavano, è il caso di dirlo, nel loro limbo beato: il “ praticello” era stato suddiviso, nella speranza di alleggerire la coabitazione forzata; purtroppo qualche pianta non aveva retto alle maldestre manovre e si era suicidata per disperazione. Il “ toast” cresciuto a dismisura in altezza, si era arrotolato come un serpente lungo la ringhiera, con un bellissimo effetto cromatico e quattro fiorellini bianchi striminziti, ma senza parvenze d’ ortaggi. In un terzo vaso una piantina dal fusto diritto e dalle molte foglie, dopo aveva prodotto diversi minuscoli boccioli, bianchi anch’ essi, aveva sorprendentemente regalato timidi germogli verdini, che ora facevano capolino, ma senza farsi riconoscere. Ero nel dubbio più totale, cosa c’ era mai in quei vasi, o meglio cosa di quello che avevo seminato aveva dato frutto, beh frutto….si fa per dire! Decisi che una ricerca immediata su internet era non solo necessaria ma urgentissima. Era giunta l’ ora della resa.
Attrezzai il portatile sul balcone e cominciai la navigazione in cerca di aiuto e con i miei portenti a portata di “ naso e di vaso”.
Scoprii che il “ toast” altro non era che una pianta di fagioli, i quali avevano bisogno di sostegno e soprattutto di spazio, di pieno sole, e che ovviamente avevo sbagliato il tempo della semina. Avevo visto giusto ad arrancarle sulla ringhiera, ma li avrei dovuti piantare molto tempo prima, perché fine luglio era l’ ora del raccolto, non della crescita.
Il ” praticello”, dove le povere piante si contendevano il poco spazio a gomitate, era la rappresentazione grottesca di una piantagione di pomodori, piante che mai sarebbero cresciute in quelle condizioni, tanto erano striminzite e malaticce. Mentre avrebbero avuto bisogno di spazio, di esposizione in pieno sole, di un vaso per ogni pianta e di terreno concimato, in ognuna delle mie due cassette giacevano circa 20 piantine accampate l’ una sull’ altra, in una babilonia crescente, nutrite solo a forza di acqua fortemente calcarea. Anche in questo caso il tempo della semina era tutt’ altro, e anche in questo caso fine luglio era l’ ora del prodotto maturo o quasi.
Nella terza cassetta la pianta verde era in realtà un bel peperoncino, che cercava di sopravvivere nonostante tutto, ricompensando la mia fatica con 3 timidi e microscopici frutti, anticamera di qualche probabile, e forse unico, prodotto finito.
Scoprii con una ricognizione diretta che la vaschetta misteriosa, quella dove non era nato nulla, era quella dove avevo lasciato a marcire le patate, che mai sarebbero nate. Le poverine avevano bisogno di terreno profondo, concimato e lavorato e di essere seminate ad almeno 25 cm di distanza l’ una dall’ altra, ovviamente con esposizione in pieno sole. Che orrenda verità scoprire invece che le dimensioni della mia vaschetta erano si e no 40 cm in tutto, della serie mission impossibile! E che rovistando sul fondo le poverine giacevano ormai rinsecchite e senza la minima voglia di germinare. Il balcone all’ ombra aveva fatto il resto!
Un capitolo a parte meritava la vaschetta delle lenticchie. Non solo avevo sbagliato a seminarne così tante in un solo vaso, con il risultato di una sola pianta a metà tra il ridicolo e il grottesco, ma avevo drammaticamente sbagliato stagione, scegliendo l’ estate anziché l’ autunno.
L’ ostinazione, cattiva consigliera e soprattutto lo spauracchio della figuraccia dopo aver blaterato a vanvera, mi incitò a proseguire. Ero ormai a metà dell’ opera, e provai ad andare avanti e in un drammatico quanto assurdo tentativo di recuperare il salvabile, provai a dividere le piantine, travasando e rinvasando. Fatica sprecata, a fine agosto, dopo due mesi di affanni, e un caos ancora peggiore di quello iniziale, sul mio balcone non c’ era ombra di ortaggi. Sulle ringhiere troneggiavano le bacchette con alcuni esili steli verdi attorcigliate e 5 baccelli fantasticamente secchi e orrendamente vuoti . L’ unica pianta di pomodori era rimasta alla stessa altezza di un mese prima, con otto foglie verdi e nessuna traccia di pomodori.
Il peperoncino aveva dato vita a tre baccelli verdi, che pian piano erano diventati d’ un rosso pallido, dalla strana forma oblunga, a metà tra un sommergibile e una mongolfiera. Praticamente immangiabili!
Decisi che era ora di darci un taglio.
Con pazienza e dispiacere cominciai a vuotare vaschette e vasi, ripulii per benino, e rimisi tutto in ordine.
Abbandonata l’ idea dell’ orto, la solitudine di quel balcone faceva impressione.
Mi girai intorno, sconsolata e afflitta. …….Poi l’ idea!
Scesi dal fioraio e, dietro suo consiglio, acquistai parecchie piante di begonie e di edera. Posizionato ben benino il tutto, corsi al supermercato e acquistai diversi ortaggi freschi e alcuni piccoli cestini.
A casa li confezionai con le mie “ primizie dell’ orto” comprati nella sezione “ biologico doc” e li decorai con graziosi centrini e fiocchi colorati e ………… voilà il gioco era fatto! Il giorno seguente consegnai i piccoli cestini agli ignari destinatari, che ringraziarono, stupefatti ed ammirati, con mille complimenti. Sghignazzando giurai a me stessa che l’ esperienza era archiviata e sospirando per la figuraccia evitata, una bibita in una mano, una sdraia per compagna e un bel libro da iniziare, sul mio balcone, finalmente fiorito sul serio, mi regalai quel famoso pomeriggio di svago e relax.
Gli ortaggi d’ ora in poi li avrei solo cucinati!