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Marta non lo sapeva

Amore

Marta sbucciava patate quel pomeriggio, ed era felice.

Non era esattamente felice perché sbucciava le patate, ma stava sbucciando le patate ed era felice.

Non era nemmeno pienamente consapevole del fatto che era felice, mentre stava sbucciando le patate, quel pomeriggio.

Marta, era in una stagione della sua vita dove le relazioni causali non rispondevano più alle solite leggi. Se al lavoro le partiva il computer all’improvviso senza che avesse nemmeno salvato i file, non si arrabbiava, non si intristiva, non bestemmiava. Non bestemmiava nemmeno se di lì a un’ora aveva l’incontro col capo. Se la sua migliore amica aveva boicottato il loro cine-domenica per una birra con l’imbecille mister muscolo del paese accanto, non si offendeva. Non urlava all’intelligenza tradita, non le augurava gomme da masticare incastrate tra i capelli.

Se nevicava il giorno del suo compleanno, impedendole di andare più lontano del bar di fronte casa, Marta, allegramente, festeggiava con i vecchi al bar di fronte casa cantando “Oh mia bella mora no non mi lasciare”. Se in vacanza pioveva 10 giorni su 7, Marta 10 giorni su 7 lasciava girare i suoi cd nello stereo rubato di Anna, e inventava giochi, come fanno i bambini.

Marta sbucciava patate quel pomeriggio, felicemente, senza saperlo. E mentre sbucciava patate il telefono, felicemente, le diceva che lui sarebbe arrivato alle otto e mezza. Anche lui, felicemente.

Prima, Marta, era morta.

No, non era in coma, non aveva avuto un incidente gravissimo sulla statale, non aveva ingoiato un tappo di birra che le aveva provocato una morte soffocante, non si era tagliata le vene e poi ricucita e poi ritagliata, non si era inoltrata a dorso nel mar Adriatico così lontano da non vedere la riva e impietrirsi per la paura e bere e annegare, non aveva provato a stendersi nuda nella neve per dimenticare il freddo e, dimenticandolo, morire assiderata… No, non.

Però, prima, Marta, era morta.

Era una morta esistente. Vivente no. Gli amici continuavano a salutarla e a ritenere indispensabile la sua presenza. La madre continuava ad apparecchiare per quattro, nei weekend. Il padre continuava a pagare le tasse dei suoi studi, e gli alimenti. Il fratello continuava a rimproverarla per la benzina nella macchina. Ma questo era prima.

Marta quel pomeriggio sbucciava le patate, ed era felice, senza saperlo.

Però sapeva che prima era morta, forse per questo era felice.

Quello che non sapeva era se dopo sarebbe arrivata una stagione ancora migliore, forse per questo non sapeva di essere felice.

Aspettava, Marta, convinta che fosse ancora mattina, sempre mattina, convinta che si stesse appena svegliando, e che il pomeriggio avrebbe rivisto le margherite, e che non gliel’avevano detto ma la sera c’era una festa, una grande festa senza gingilli e putipù ma con tanta musica e bella gente con cui parlare, cantare, parlare.

Marta, prima, era morta.

Non si puo’ morire due volte nella stessa vita, si diceva.

E’ solo l’inizio.

Marta, ormai, aveva già pelato e cotto le patate, le aveva schiacciate. Olio, sale, 3 uova, parmigiano, prosciutto cotto, provola fresca, latte quanto basta. In un ruoto imburrato, poi livellare tutto e poi il pangrattato. 200 gradi.

Marta si fa la doccia col bagnoschiuma alle more, Marta stende la crema sulla pelle bagnata, Marta indossa la lingerie migliore, abilmente nascosta sotto un jeans senza pretese e un maglione troppo largo.

Marta risponde al citofono, Marta sorride alla porta, Marta bacia senza pretese, d’affetto e di fretta, che avrebbe avuto il tempo, dopo, a pancia piena e il sapore di vino. Marta riempie i piatti, e se al suo tavolo, dal buon odore, si sono seduti altri tre, Marta sorride pensando agli altri mille giorni in cui avrebbero potuto essere in due. Marta aspettava e sapeva aspettare, lui, che era sempre un’esperienza bellissima, e valeva ogni sforzo, ogni costo, ogni rischio. Marta mangia, e ride, e finisce il vino, e vanno in camera.

Marta provava ad accorciare le distanze, lui si comportava stranamente come una volpe in gabbia.

Quando lui fu sul balcone, lei chiuse le porte e gli disse che avrebbe abbassato la persiana, che l’indomani, alzandola, per la prima volta a decidere il suo umore non sarebbe stato il sole, che domani, trovandolo, sarebbe stata felice, più felice di così (che non sapeva che era felicità).

L’avesse fatto!

Quando lui rientrò e le disse che c’era qualcosa di cui parlare, Marta, non era pronta.

Avrebbe dovuto ridarle indietro gli altri mille giorni in cui sarebbero stati in due. Avrebbe dovuto ridargli un bacio, sulla porta, violento, lungo, passionale. Avrebbe dovuto rimettere il tappo al vino, e portarle un Brunello del 2004, il migliore.

Avrebbe almeno dovuto prima riempire il foglio di reclami, lei, avrebbe prima dovuto capire cosa si poteva fare prima della rottamazione. Avrebbe almeno dovuto farglielo ingoiare prima. Avrebbero almeno dovuto odiarsi, disprezzarsi, archiviarsi. Avrebbe dovuto lasciare un sostituto, lì, pronto, sul balcone. E lui, per penitenza, avrebbe dovuto sposare una commessa per un errore a letto, una ballerina da night club muta da mostrare agli amici, o la sua maestra delle elementari che gli dicesse ancora “bravo, bravo”.

Mentre lui le parlava, le sue parole erano come rarefatte. Era come se le parlasse da un altro pianeta, lontano, impossibile, come se fosse già andato via.

Così, senza i mille giorni in due, il bacio passionale, il brunello del 2004. Senza le margherite di pomeriggio, e la musica alla festa, senza la notte.

Mentre lui le parlava, Marta era già un animale evoluto troppo in fretta che aveva cambiato le sue funzioni vitali per sopravvivere al disastro.

Non ascoltava niente delle sue parole, non serviva.

D’altronde, Marta era già morta una volta, non le serviva l’autopsia o il medico legale per capire.

Sapeva, che per una storia non esiste dolce morte, ogni eutanasia è un omicidio in amore.

Sentiva il freddo dei suoi 5 sensi fatti inutili: non sentiva, non avrebbe parlato. La sua vista fantasiosa, che ingigantisce tutto da vicino, e da lontano confonde i confini per accendere la fantasia delle forme, aveva già spento le luci, e ingoiato le ombre nel buio più buio. A cosa servivano le mani, e la pelle profumata e morbida sotto la lingerie migliore, a cosa serviva il tatto e l’olfatto. E il sapore del vino che aveva bevuto lei, quello nemmeno serviva! Il gusto era rubarli dalle sue labbra, i sapori, di vino e di lucky strike. Li aveva rubati da lì anche quando aveva smesso, il vino e le lucky strike, non lui, che non era pronta a smettere.

A niente servivano le leggi di questo mondo, la matematica, la filosofia, la semiotica, l’antropologia. Marta, che era già morta una volta, lo sapeva.

Marta non parlò, quella sera, ma capì che era stata felice quel pomeriggio a sbucciare le patate.



RisaDiTali 09/02/2011 10:20 969

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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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