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Mi ricordo come se fosse ieri e son passati quasi 50 anni, quando poco più grande di uno sgabello seguivo di nascosto il mio vecchio. I pomeriggi assolati e caldi in quel piccolo paese a cavallo dell appennino tosco emiliano in mezzo al nulla.
Ci arrivava solo la corriera e poco altro. Correva il 1946, ed anche se la guerra era finita, si contavano ancora i dispersi.
Il bar era deserto, solo pochi affezionati venivano. I più cercavano refrigerio sulle rive del fiume o del grande lago. Come dargli torto? Stare in paese era impossibile.
Nella parte posteriore del locale c’era la sala bocce, al tempo, interdetta a me. Porte spalancate per far circolare aria... odore di polvere, di erba, di terra. A fianco la saletta delle carte, tornei infiniti di briscola e scopa. Fra bestemmie per un asso calato di prima mano, caffè corretti, sigarette Nazionali e intercalari coloriti, i nostri vecchi ci raccontavano la guerra, la morte e la rinascita... Ricordo con malinconia la moglie di Cardellino, la chiamavo io così, ma in realtà si chiamava Bordellino, mi dava il gelato di nascosto a mio papà. Mi portava giù nelle stanze, dove tenevano le scorte di cibo e là trovavo i miei amici di campana, nascondino che facevano merenda con pane e formaggio, mentre il suono della chitarra ci rendeva felici. Un’ infanzia più tranquilla, più gustosa, più serena. Le figure o per meglio dire caricature della nostra comunità. La sora Luna, una delle donne più minute del paese, anziana, un’ anima marchiata, ma non piegata dalla vita dura. Don Pino, il parroco, durante le omelie della Messa domenicale saliva su pulpito e inveiva contro i mercanti di morte, contro i potenti. Lui, da soldato della grande guerra aveva visto i misfatti del genere umano. Mio padre diceva sempre, che aveva sbagliato vocazione, doveva fare il politico. Le vecchine si addormentavano, pochi ascoltavano l’anatema. I chierichetti sbadigliavano, il sindaco guardava l’orologio e faceva segno di tagliare corto. Era una comunità molto ristretta e gelosa. Quante avventure nella canonica. Rubavamo le ostie, le bagnavamo nel vin santo e via colpi di tosse a non finire. I ragazzi più grandi con le morose si appartavano in cerca di pace. Timidissime erezioni. La sera tutti a tavola insieme, sudati, sporchi di terra, gote rosse e ginocchia sbucciate. Io, da bravo lavativo mangiavo dopo, prendevo più nocchini che chilogrammi. Quando calava la sera, mio padre tornava in paese, mi madre rassettava e mio fratello usciva a fare baldoria. Io, prendevo una coperta salivo sul tetto e mi perdevo nell’ immensità del cielo stellato. Sognavo, vagavo, immaginavo. Aspettavo mio padre e prima che mi urlasse “ Scendi disgraziato “ gli correvo incontro sperando mi avesse portato le giuggiole candite, a volte quelle, altre un bacio in fronte....padre mio...
Fine I parte |
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