Lei si voltava spesso, mentre camminava e sorrideva senza motivo, perché era sempre un passo avanti agli altri.
Non ci potevamo fare niente.
Sophie, piccola Sophie.
Io la ricordo bene, la conoscevo bene, ma non sono mai riuscito a capire alcune sue ragioni. Per quanto due persone siano unite, restano più distanze, fra loro, che punti di contatto.
È triste, è fuori moda pensare ad una cosa del genere, ma è inutile negare l’ evidenza.
Nelle canzoni e nei film si è una cosa sola, nella vita no.
Parlavamo spesso.
Eravamo stati compagni di scuola, e lei era quasi la sola persona con la quale mi relazionassi, però ci conoscevamo già da tempo, fin dall’ infanzia. Era la figlia della migliore amica di mia madre.
Più che futuri fidanzatini, ci sentivamo come fratello e sorella.
Non è che mancasse l’ attrazione, tra noi, ma quando condividi con una ragazza i primi anni della tua vita, in un certo senso, impari a vederla al di fuori del sesso, oltre il desiderio, un po’ come capita con una vera sorella. Almeno credo, non potrò mai esserne certo, sono figlio unico.
Noi sapevamo, fin dalla verde adolescenza, che avremmo imparato a baciare l’ uno dall’ altra, ma sapevamo altrettanto bene che non saremmo mai andati oltre. Si trattava di uno scambio di favori in vista di una vera fidanzatina e di un vero fidanzatino, così avremmo fatto bella figura.
Perché no? Sono convinto che tanti imparino a baciare dalla sorella o dal cugino. Non tutti, forse, ma tanti. Non sarò un pozzo di scienza, ma nemmeno uno stupido. Conosco il lato oscuro dei pensieri, e non credo sia un gran pericolo, almeno finche’ rimane nel profondo.
Io e Sophie ammettevamo che sarebbe stato assurdo provare di più, ed eravamo consapevoli di questo, perché una specie di morale interiore ce lo imponeva. Eravamo amici, confidenti, complici in ogni cosa ci accadesse. Spingerci fino all’ atto carnale, avrebbe significato smettere di essere amici, confidenti, complici in ogni cosa.
Non si butta via un rapporto simile.
È un discorso che fanno molto spesso le donne, ma anche gli uomini, se già hanno una donna con la quale andare a letto. Se non ce l’ hanno, il proposito da serie tv statunitense sui legami preziosi, irripetibili e deteriorabili dal sesso, va a farsi benedire.
Un uomo rinuncerebbe alla corona di un impero per una donna che lo ossessiona, fregandosene di tutto: amici, famigliari, fidanzati o mariti di quella donna. Funziona così perché funzionano così gli uomini, siamo programmati in questo modo. C’è poco da rifletterci sopra.
Sophie non guardava nel mondo dei sogni e nei romanzi rosa. Se non voleva fare sesso con me, non vedeva nulla di male se l’ avessimo fatto io e sua madre. Per me, farmi la madre di Sophie era l’ unico modo per non farmi Sophie, e Sophie lo sapeva. Di lei ho sempre apprezzato il senso patico.
Per un maschio italiano riluttante alla psicanalisi, la fonte di verità e di saggezza non viene da Socrate o da Platone, ma dalla mamma, e la mamma distingue il vero dal falso, il bene dal male. Ma se proprio dobbiamo perdonarla per averci messo in questo mondo di merda, la mamma deve perdonare a noi almeno un segreto. Andavo a letto con la sua migliore amica. Sai che scandalo.
Conoscevo Claudia dai tempi delle elementari. Lei e la santa che aveva avuto il suo primo ed ultimo (non appagante) rapporto carnale al solo fine di concepirmi, alle tredici, venivano a scuola per prendere me e Sophie. Erano poco più che ragazze, all’ epoca.
Durante le medie, erano decisamente donne.
Non posso negare il fatto che Claudia mi fosse sempre piaciuta. In parte perché somigliava alla mia migliore e dunque unica amica, in parte perché, a quell’ età, tantissimi ragazzi sono attratti dalle donne molto più grandi. Io non facevo eccezione. Non ricordo di aver mai fatto eccezione in qualcosa. Una vera fortuna che non siano poche le donne grandi attratte dai giovani, e questa è la sola ‘ armonia universale’ che io sia disposto a riconoscere.
Un giorno, nel giardino di casa mia, seduti su due rudimentali altalene appese al ramo di un vecchio pino grigio, Sophie mi confidò quel che già sapevo, ovvero che sua madre non si era mai sposata. Io ero troppo giovane per domandarmi se la posizione di Claudia fosse sconveniente, a livello sociale, ma, nella brutale sincerità della giovinezza, lo davo per scontato.
E, quindi, visto che ero in assoluta confidenza con la mia quasi- sorella, le chiesi:
“ Ma ha un uomo? Un fidanzato? Qualcuno con cui si vede?”
Sophie mi rispose che sua madre dedicava l’ intera giornata a lei e al lavoro, a lei e al lavoro, e poi ancora a lei e, dopo cena, al lavoro. Una vita più terribile non me la sarei potuta immaginare.
Non erano benestanti, e anche se mia madre aiutava spesso Claudia con le spese giornaliere, credo non si sarebbe mai immaginata di quanto Claudia avrebbe aiutato il suo tenero, fragile, ingenuo e cagionevole unico genito.
Presumo sia imbarazzante, per chi abbia generato un figlio, vederlo come fisicamente normale e piuttosto lontano dalla timidezza e dall’ innocenza. Molte vanno fiere dei prodotti seriali che danno alla luce, ma sono sicuro che, dentro, non li vorrebbero per come sono destinati a diventare.
È il bambino il chiodo fisso, non l’ uomo ‘ in fieri’. Almeno, questa è la mia impressione. Alle donne, gli uomini non piaceranno mai. Agli uomini, le donne non piaceranno mai. E’ un fatto, anche se si scopa.
Di fantasie su Claudia ne avevo elaborate a pacchi, e lei era tutt’ altro che distaccata, con me. Rispettavo e capivo la sua bizzarra, selvaggia figliola, tanto odiata dalle compagne di classe, sempre con qualche schizzo di fango sui vestiti, sempre pronta a saltare sulla macchina di mia madre, una Renault 5, per chiederle, con i suoi volitivi e speranzosi occhi chiari, di farle fare almeno cento, duecento metri.
Eravamo strani, io e Sophie. Due ragazzi soli, che se ne fregavano della solitudine. Esclusi dai leader della scuola, ma nemmeno simili a quei poveretti vittime del fenomeno che, ai giorni nostri, si chiama bullismo.
Io e Sophie non seguivamo alcun misticismo filantropico, inteso a vedere la luce anche in un tombino. Sapevamo che la vita, in fin dei conti, era una cosa banale: si nasceva piangendo, si viveva per un po’, senza uno scopo preciso, e si moriva prima del previsto.
In terza superiore, c’ era questo tale che raffigurava l’ incarnazione della gioia sadica di ogni bullo. Luca, si chiamava, o forse Stefano.
Gliene facevano di tutti i colori. Trucioli di temperini soffiati negli occhi, torture psicologiche in bagno, dove veniva costretto ad inginocchiarsi nelle turche, scritte sulla faccia con l’ Uni- Posca, scolorina sulle unghie, punte di compassi nella schiena, cose così.
E lui subiva, subiva, subiva.
Io gli dicevo: “ Ti basta una ginocchiata nelle palle. Poi te le daranno, è ovvio, ma tu potresti colpirli, perché sono delle scorie umane! Non vogliono ucciderti, vogliono solo umiliarti, non ti picchierebbero troppo forte. Finiresti con qualche cerotto e gli occhi neri, ma poi ti lascerebbero stare. Ti basta una ginocchiata, - gli dicevo – perché non esiste un altro modo. Credimi, non esiste.”
Ma niente, non ci riusciva. Non ci riusciva perché questo significa essere fragili: non riuscirci.
Una tarda mattinata, durante la ricreazione, volò una lama, e la faccenda si fece seria.
Stefano, o Luca, si ritrovò disteso sulla cattedra, con un serramanico alla gola.
Sì, ho avuto dei dubbi, quella volta, sono pronto ad ammetterlo. Un po’ avevo paura io: una lama è una lama, non un pennarello, e un po’ temevo per il poveretto. Non ero sicuro di quale sarebbe stata la reazione del bravo giovane che gli arrossava la pelle con il coltello, se fossi intervenuto. Senza contare che, fra lame e pistole, gli incidenti regnano sovrani. Si trattava di una situazione delicata, e che riguardava l’ incolumità di tutti i presenti nella classe, in quel quarto d’ ora.
Una di quelle circostanze che segnano il confine fra un ‘ prima’ e un ‘ dopo’.
Non seppi mai perché si fosse arrivati a tanto, ma l’ unica a non avere dubbi fu Sophie.
Era la più forte, fra le mie compagne, e sapeva che una matita piantata in un fianco non è roba da poco, e ti porta a scattare all’ indietro.
Io e Giovanni, mi pare che si chiamasse così, un attimo dopo disarmammo il teppista.
Cose simili succedono, sono sempre successe e sempre succederanno. C’è l’ ipotesi che rientrino in una sorta di perverso e primordiale rito selettivo, ma, ad un certo punto, devono finire.
Non sono il tipo che denunci una persona per un ‘ vaffanculo’, così come, allora, non ero il tipo che andava dal preside.
Io e Giovanni ritenevamo, in ogni caso, che il bullo avesse davvero passato ogni limite.
Non molti, ai giorni nostri, approverebbero lo stile in cui, in un angolo nascosto del cortile, io e Giovanni chiarimmo al bullo, in maniera assolutamente inequivocabile, che non avrebbe dovuto rifarlo, con nessuno, e che se si fosse lamentato presso qualche autorità per gli ematomi sulla sua faccia, ad avere la peggio sarebbe stato lui, dato che in parecchi lo avevano visto minacciare un poveretto inoffensivo con un’ arma mortale.
Quelli che, oggi, non giustificherebbero il nostro sistema propedeutico al quieto vivere, sono convinto sarebbero gli stessi pronti ad affermare di aver parlato con il proprio angelo custode.
Io e Sophie confiscammo al bullo il suo zaino, quando suonò l’ ultima campana, e lo bruciammo in un cimitero delle auto che avevamo raggiunto in scooter, fuori città.
Ricordo benissimo quel pomeriggio. Mentre lo zaino e i libri bruciavano, Sophie era affascinata dai riflessi del fuoco sui vetri polverosi delle carcasse di automobili, su ciò che restava delle carrozzerie. In quel luogo dove andavano a morire cose mai state vive, Sophie era solenne, grave e bellissima, come se ci fossimo trovati in un vecchio e crepuscolare luogo di culto, consacrato a divinità minori.
Se può essere di consolazione ai tenui d’ animo, non provammo alcun piacere nel fare ciò che, dal nostro punto di vista, andava fatto, per il bene nostro e di tutta la santa chiesa delle persone aderenti alla confraternita del ‘ dio- vede- e-provvede- così-noi- siamo- liberi- di- essere- codardi’.
Erano i nostri metodi, perché, se bisognava chiarire qualcosa, bisognava essere chiari. Se volevi vivere, dovevi essere in grado di restare vivo. Punto.
Se usavamo le maniere forti, era solo per dimostrare di cosa eravamo capaci.
Per me e Sophie, essere sottomessi o presi in giro era semplicemente inconcepibile, e le torture dei bulli erano niente, rispetto alla difesa che avremmo opposto, in caso di attacco.
Non ci definivamo dei duri, volevamo soltanto essere lasciati in pace. Non amati o ammirati, di quello avevamo imparato a fare senza, non ci interessava comandare o imporre il nostro pensiero. Nemmeno ci suscitava gratificazione l’ idea di essere temuti, preferivamo risultare convincenti fin da subito.
C’ era da passare la soglia? Noi la passavamo. Non esistevano confini etici precisi. Non badavamo alla coscienza, quando si trattava di noi contro gli altri. Gli altri erano gli altri, e noi venivamo prima degli altri. Se una cosa la natura ci insegna, è che le regole, in combattimento, sono un controsenso, un modo stupido per lavarsi dai peccati. Alla fine, vinci o perdi, vivi o muori. Conta unicamente questo.
Che indossassero pure le loro Timberland e i loro Moncler, tanto non si avvicinavano.
Forse ci saremmo meritati un castigo, per la nostra spietata forma di purezza. Tuttavia, la stessa cosa si poteva dire di loro.
Anche Giovanni la pensava così.
Giovanni pareva quasi un nostro amico, però non un amico quanto lo ero io per Sophie e lei per me. Andavamo d’ accordo, con Giovanni, ma di amici come lui ce ne sono più delle onde del mare.
Tutto sommato, ci piacevano gli anni ’ 80. Noi ci sguazzavamo, negli anni ’ 80, perché dietro la loro apparente superficialità innocua, erano brutali, cinici e menefreghisti, con pop star super- zoccole che non pretendevano di esportare ideali democratici e attori scarsi che riuscivano a recitare solo interpretando robot comunisti, inviati dal futuro per distruggere l’ umanità libera.
Si fottessero tutti, noi stavamo in America, e ci stavamo da dio. Il mondo non l’ aveva cambiato Robespierre, non l’ aveva cambiato Gandhi, e questo bastava e avanzava per dimostrare che non si poteva cambiare.
C’ era un sacco di roba strana, in giro, e stavamo dalla parte di noi e basta. Nel narcisistico egocentrismo del nostro atteggiamento, si poteva intravedere qualcosa di estremamente sincero e reale, che non piaceva ai paninari e neppure agli estremisti politici, ma in modo simile ragionavano gli animali, che strisciassero o volassero, dalle più stupide forme di vita ai più fieri predatori strategici.
Di quegli anni, noi eravamo l’ essenza cruda e indigesta.
Intanto, la mia relazione con Claudia funzionava a meraviglia.
Non potevo dirmi il suo fidanzato, c’ era troppa differenza di età. Ma funzionava, quindi perché interromperla? Di sicuro, non mi sono mai sentito a disagio, con lei. Era la versione quarantenne di Sophie, ed era sempre stata il mio sogno erotico. Non aspettavo altro.
Ragioni per ritenere quel rapporto inadeguato o sconveniente, se ne troverebbero solo nel politically correct. Io ero libero, lei era libera, Sophie era contenta perché sua madre odiava la solitudine. Non mi era mai capitata, né mi sarebbe capitata più, una circostanza tanto favorevole.
Magari non ero incline alle romanticherie, ma sono sempre stato un tipo sensibile e premuroso.
Quale legge superiore differenziava il mio rapporto con una donna grande da quello che avrei potuto avere con una mia coetanea? Se quella legge fosse esistita, sarei stato ben felice di trasgredirla.
Sophie era davvero soddisfatta. Aveva dato alla sua infelice madre un amante giovane e rispettoso, aveva dato al suo solitario amico una amante favolosa, e lei, in un senso che a parecchi sembrerebbe sinistro, poteva averci entrambi. Ma non pensavo a Sophie, quando stavo con Claudia, pensavo a Claudia e basta. A chi pensasse Claudia, non erano affari miei. Non avevo la pretesa di essere al centro dei suoi sogni, né di essere un suo sogno qualsiasi, se è per questo.
A volte, scherzando, mi chiamava ‘ il suo giocattolo preferito’. Nulla in contrario, da parte mia. Se un uomo afferma di non voler essere il giocattolo preferito di una bella donna, è senza dubbio un bugiardo.
Non amavo Claudia, e lei non amava me, però fra noi nacque un affetto tenero e solido.
La pensavo spesso, era la mia musa ispiratrice. Era una donna che avrei anche potuto amare, o forse l’ amavo, non saprei dirlo. In quel turbine di giovanile e scherzosa passione, era difficile restare lucidi. Di sicuro amavo noi tre, e questo era l’ importante, e noi tre amavamo me, come amavamo Sophie e Claudia. Impossibile non amarci, fra racconti, battute, confidenze e bonarie prese in giro.
Non c’ era nulla che dicessi a Sophie o a Claudia senza che l’ altra dovesse venirla a sapere.
Nel nostro segreto isolamento dalla collettività, intravedevamo un finale comune.
Io, Claudia, Sophie, seguivamo un filo conduttore che incanalava le nostre vite quasi sempre nella stessa direzione. Il motivo che ci rendeva quelli che eravamo, non stava nelle nostre teste o nei nostri cuori, ma in qualcosa di molto più durevole.
Stava nelle nostre ossa, tutto ciò che ci accadeva, perché attiravamo l’ unico destino possibile, e non eravamo così illusi da credere di averlo deciso noi.
Per ragioni non definibili, e che non si sarebbero nemmeno potute verseggiare in una poesia, ci sembrava chiaro che il nostro posto sarebbe sempre stato in disparte.
I riflettori erano per altri, e così i ruoli di prestigio, le vite ben calibrate, i progetti.
Nei nostri occhi non sarebbe mai scomparsa quella sottile malinconia che, talvolta, si tramutava in sarcasmo. Sentivamo la legge della terra come tre persone che ascoltassero la medesima canzone.
E, dunque, eccolo lì, il mondo ‘ fuori’, né desiderato né odiato, un po’ troppo lontano, un po’ troppo spaventoso, non certo intenzionato a considerarci più di semplici estranei.
La nostra storia, per il mondo e per gli altri, era uno di quei romanzi poco incisivi, scritti da sconosciuti inesperti e incompleti, incapaci di scegliere fra la filosofia e la narrativa, che finiscono on line per tre euro al massimo e che nessuno legge.
Sapevamo meglio di chiunque altro che tutto finisce, che le cose belle non durano e che, forse, era nell’ ironia di quel mediocre pianeta che non ci dava un habitat, farle durare poco.
Non ci fu un momento culminante, nessun grande addio o rivelazione epifanica.
Quasi tutto, in genere, si dissolve senza fretta, e senza fare troppo rumore.
Non ci fu nemmeno un motivo.
Semmai, c’ era quel particolare che, più degli altri messi assieme, separava me da Sophie. Il punto debole lo trovi anche in una lastra d’ acciaio, e il punto debole è quello che, ad un tratto, ti compare davanti per dirti: “ Eccomi qua. Ti eri dimenticato di me? Io non mi ero dimenticato di te.”
In Sophie, la vita si attenuava, ma non arrivava mai a spegnersi. Non distingueva fasi, vedeva gli eventi in continuo divenire.
Il nostro punto debole era il viaggio.
Un tardo pomeriggio, me ne stavo seduto sullo schienale della solita panchina, fuori da un distributore cittadino di bevande calde. Amavo quelle piccole stanzette che contenevano solo due macchine: per il caffè o simili e per le merendine. Mi evitavano inutili chiacchiere con baristi o camerieri.
Ce n’ era una poco distante dal mio palazzo, e se non cazzeggiavo in casa, mi si poteva trovare quasi sempre lì.
Era una giornata abbastanza tollerabile, dopo giorni di sole accecante e caldissimo. Sopra di me, il cielo sembrava un immane turbine di nubi grigie, ma io non ci facevo molto caso.
Con una sigaretta e un bicchiere di plastica in mano, guardavo le macchine passare, i pedoni sul marciapiede e altri dettagli senza importanza.
Sophie arrivò passeggiando, scanzonata e distratta, ricordo che indossava una maglietta celeste.
Era il solo particolare colorato, in quella zona nuvolosa e grigia.
Sedette accanto a me, e restammo qualche secondo in silenzio.
“ Sai, - disse d’ un tratto, senza guardarmi – credo che, alla fine, ogni posto esaurisca i motivi che ti spingono a restarci. E vale per tutto, non solo per questa cittadina. Lo sai, no? Ogni luogo, alla fine, non riesce più a trattenerti. Anche Parigi, Londra.”
Io sorseggiai il caffè e presi un po’ di fumo.
“ E allora, perché partire? – obiettai senza alcuna pretesa – Tanto, ovunque andrai, alla fine, non ti basterà. Quindi, fa differenza? Qui, New York, Mosca? ‘ Perché partire, Ismaele? Tutto il mondo è come Lima.’”
Alla mia citazione, sorridemmo entrambi.
“ Lo so che è il tuo romanzo preferito. – disse Sophie, passandosi una ciocca di capelli biondi dietro l’ orecchio – Però non sei coerente. Ismaele partiva lo stesso, mentre tu no.”
“ Io non sono come Ismaele, - risposi, e guardai la brace della sigaretta, non avevo voglia di scherzare – e nemmeno come il capitano Achab. È probabile che io proprio non ci sia, in quel romanzo.”
“ E in quale romanzo sei?”
“ In nessuno. Sono soltanto qui, a bere caffè e a fumare.”
“ Vedrai che lo scriveranno, il romanzo in cui ci sarai.” Mi rincuorò Sophie, toccandomi con il gomito.
“ Spero proprio di no!” Esclamai, e solo a quel punto le sorrisi.
Non mi diede l’ impressione di aver capito.
Non avrei mai smesso di restare in contatto con Claudia, prima al telefono e poi solo tramite sms, mentre io e Sophie ci separammo definitivamente una notte, pochi giorni dopo il nostro incontro sulla panchina, sotto quel cielo pieno di strani vapori scuri.
Erano le undici e qualcosa di un’ afosa sera d’ estate, avevamo ancora cinque minuti per salutarci. Il suo treno partiva alle undici e un quarto, ma non ci saremmo tenuti la mano fino all’ ultimo momento, non avrei rincorso il convoglio, né mi sarei arreso, rallentando a poco a poco, con un senso di solitudine vertiginosa nel cuore.
Il nostro saluto fu un semplice bacio, e il tacito accordo che non ci saremmo mai più rivisti.
In effetti, andò così.
Non era stato meglio così, non era stato neanche giusto così. Era andata così.
L’ ultima cosa che mi rimase impressa di lei fu il suo braccio fuori dal finestrino del vagone, intanto che io restavo sulla banchina, con una sigaretta quasi finita fra le labbra e le mani in tasca, mentre le luci del treno si facevano sempre più tenui, e alcuni passeggeri di corsa mi passavano davanti e dietro, altri si guardavano attorno, vaghi e confusi, alla ricerca di luoghi e orari dai quali dipendeva il loro futuro, qualunque futuro fosse.
Fu un saluto silenzioso, come silenziosi erano gli uomini e le donne che si aggiravano accaldati e indecisi per la stazione, i biglietti in mano, le valigie, quella facce poco convinte o stanche, come se fra partire e tornare non ci fosse questa gran differenza.
Io li osservavo, senza la minima voglia di imitarli. Presenze fuggenti e incorporee che erano già altrove, oppure non erano più dove si trovavano, con pensieri e ricordi che seguivano itinerari a caso.
Non mi sono mai piaciute le stazioni dei treni, e neanche gli aeroporti. Neanche gli autobus, ad essere sinceri, o i taxi.
Il solo piacere che traevo da una modesta stazione ferroviaria di una modesta città, stava nella certezza che mi trovavo lì solo di passaggio, per salutare una persona che, nel tempo, si sarebbe trasformata in una bella malinconia, ma con una forma e una voce sempre meno nitide.
C’è gente che trova affascinanti i viaggiatori, pensando abbiano chissà cosa da raccontare. Ma, in definitiva, raccontano di città, boschi, popoli, religioni, strade e monumenti, e di tutti gli stati d’ animo che si sono inventati per le varie occasioni.
Non era una tragedia, le tragedie sono altre. Mi sarei svegliato comunque, la mattina dopo, e avrei fatto colazione con caffè e sigaretta, come in un giorno qualsiasi. Claudia si era messa con un tizio, non ho mai saputo chi fosse. Pazienza, tanti bei ricordi, che non sono molto, a dire il vero, ma meglio di niente, anche se non possono considerarsi vivi, soltanto riflessi di un trascorso che cerca con ostinazione l’ eternità, senza mai trovarla.
Dal mio punto di vista, era partita anche Claudia, e non potevamo permetterci di vivere nel passato. Loro l’ avevano fatto? Perché avrei dovuto farlo io? Non si trattava di un principio, ma di bisogni immediati. C’ era tanta, tanta roba, ed era tutta lì, davanti a noi, per noi, ed era il caso di prendersela, finche’ avevamo tempo. È il tempo la vera ricchezza.
Potevo incontrare altre donne, non esistevano solo Claudia e Sophie.
Preferivo le donne agli amici, per ovvi e prosaici motivi, e non mancavano le donne che la pensavano come me.
Mi ero reso conto di aver ridotto la vita alla sua essenza. Il piacere, in qualunque forma, risultava l’ unica cosa certa, ed era, in effetti, l’ unica cosa certa.
Il rancore non serviva a niente, troppo spirituale per i miei gusti.
Mi ero sentito bene con Claudia e Sophie, ma avrei trovato un accettabile equilibrio anche con le persone incontrate dopo.
La cosa terribile, di questo mondo, è che si impara a fare a meno di tutto, perfino della prima amante o della prima, unica amica.
Si impara a farne a meno perché si cresce e si comprende. Io e Sophie, però, lo sapevamo già.
Eravamo nati nell’ era giusta. Ci si usa per un po’, e poi si finge di non dimenticarsi.
Una volta, in intimità, Claudia mi aveva chiesto: “ Vorresti essere con mia figlia, adesso, vero?”
E io le avevo risposto: “ No. Sinceramente no. È come se neanche esistesse, adesso, la tua Sophie.”
Piccola, randagia Sophie, che spariva nella notte, senza lasciare indirizzi, numeri o nomi.