Le rimanevano di lui soltanto alcune cartoline di santi, immagini di antichi dipinti, sul cui retro aveva trascritto, come messaggi d’ amore che solo lei poteva interpretare, traduzioni delle "Elegie romane" di Goethe o poesie di poeti inglesi, Kits, Wordsworth, Coleridge. Tutto il resto, le innumerevoli lettere scritte con una grafia minuta e perfetta d’ altri tempi, era stato bruciato, come ad annullare ogni traccia del passato, prima che si avventurasse nella sua nuova vita di donna che si è riscattata dal tradimento, dall’ abbandono, dalla delusione di un matrimonio che era stato solo una miserevole farsa. Ora doveva costruirsi una famiglia sua, avere quei figli che il destino le aveva precedentemente negato, dimostrare al mondo, prima che a sé stessa, quanto valeva e cosa si era perso quell’ imbecille scegliendo un’ altra.
Non poteva esserci posto, in questo guazzabuglio di progetti concreti da attuare al più presto, per un amore quasi platonico, quasi fuori dal mondo, totale e profondo, ma irrealizzabile giuridicamente, come quello che le avrebbe offerto Raffaele. E così le loro vite avevano imboccato strade diverse, lui solo, come sempre, con i suoi studi, le pubblicazioni, le conferenze in giro per la regione e per l’ Italia; lei sposata, docente liceale, due figli, una vita regolare e programmata, realizzata, come aveva pianificato con tanta minuziosa attenzione.
Dopo così tanti anni, però, rimaneva tra loro, a legarli non si sa come, un filo invisibile, tanto sottile quanto forte, che si chiama rimpianto.
Raffaele C. era stato il suo professore di Storia nei corsi abilitanti. Aveva una preparazione vasta e poliedrica ed era all’epoca docente presso un grande Ateneo. Studioso di storia moderna e contemporanea, di raro acume e apprezzato per le sue penetranti indagini dei documenti e per le rigorose ricostruzioni storiche, egli era, tuttavia, del tutto disincantato sull’ universo “ insegnamento”. “ Il più sciocco e mortificante dei mestieri possibili”, l’ aveva definito nella prefazione ad un suo lavoretto su Michele Romano, steso velocemente, tra un verbale e un orale, proprio nei mesi di saltuaria permanenza nella cittadina di Asia, per la docenza di Storia nel corso.
“Lavoretto che è e vuole essere una testimonianza ed un testamento nel senso per me consueto e comune di queste affini parole,- scriveva nella prefazione all’ edizione del Natale 1977- un tentativo di far rimanere qualche cosa, di far restare soprattutto un ricordo, là dove si è vissuto per qualche tempo, e poiché si è vissuto s’è provato anche un po’ tutto il guazzabuglio di sentimenti, di aspirazioni e di delusioni che la vita reca sempre con sé.”
Di quel guazzabuglio faceva parte anche la loro amicizia, che per le vicissitudini esistenziali e sentimentali di entrambi, in gran parte analoghe, aveva assunto il carattere di una singolare affinità elettiva. Anche dopo gli esami finali, con i quali ebbe termine il corso, non si erano persi di vista, anzi, la lontananza li aveva legati molto più profondamente, per il tramite di un fitto e regolare scambio epistolare.
Più che di semplici lettere, si trattava di un vero e proprio carteggio, dove l’ uno e l’ altra riversavano tutti interi e nudi i reciproci sentimenti. C’ erano in quelle pagine varie considerazioni sugli uomini e sul mondo, sugli affetti e le incomprensioni di cui siamo protagonisti e vittime al tempo stesso, sul male che ci facciamo reciprocamente, salvo poi a pentircene in una desolata quanto sterile μετάνοια .
“ Mia adorata…”, l’ incipit delle sue lunghe missive era sempre questo. Scritte con una grafia minuta ed elegante, simile a quella degli antichi manoscritti preziosi che è possibile ammirare nelle sale delle grandi biblioteche benedettine. Conservava di lui un quaderno, di quelli con la copertina nera e i fogli color ocra con i margini rossi, contenente una traduzione dal greco del Prometeo incatenato di Eschilo, cui faceva seguito l’ Antigone sofoclea. Le era capitato tra le mani pochi giorni prima, mentre sceglieva i libri da leggere durante la vacanza. Prometeo e Antigone: due eroi simbolo di quel disperato titanismo che era stato, in fondo, anche la nota caratterizzante della vita di Raffaele.
- Mi rendo conto di aver vissuto come al venticinque per cento. – le aveva detto nell’ ultima telefonata – So anche, certo, di aver portato a compimento, attraverso i risultati concreti del mio lavoro, il meglio di me, e ne sono fiero; ma resta tuttavia una sensazione di incompletezza, come di rattrappimento, per non aver realizzato una gran parte di quel me stesso, che pure voleva e doveva vivere. Noi recitiamo continuamente, mia cara Asia, e non è detto che la nostra parte ci piaccia completamente. Il Berretto a sonagli di Pirandello, hai presente? Io ho scelto la corda seria, tu la pazza… poi resta quella civile, che però non interessa né a te né a me. E comunque non basta scegliersi la propria corda: c’è bisogno anche di qualcuno che la faccia suonare, e questa è la cosa più difficile. -
Sapeva resistere nella solitudine in cui si era indotto a vivere, e di questa forza morale, della dignità con cui affrontava quotidianamente la sua esistenza in percentuale era malinconicamente orgoglioso.
C’ erano stati anche dei momenti in cui aveva concepito l’ idea che lei potesse diventare la sua compagna, malgrado l’ enorme differenza d’ età. Per condividere l’ amore per la cultura – diceva – e per farsi compagnia a vicenda, senza obblighi contrattuali di nessun tipo, per il solo desiderio di combattere insieme la solitudine in cui tutti, a questo mondo, ci dibattiamo, pur senza averne coscienza. Aveva tradito questa segreta speranza in occasione del grande convegno a Teramo sugli Acquaviva e in varie altre circostanze, senza però ottenere che quell’ idea si facesse strada concretamente anche nell’ animo di lei.
Asia si chiedeva adesso con sincero rammarico, a distanza di vent’ anni, quanto amaro disinganno dovesse aver provato quel suo caro, grande amico ricevendo la tremenda lettera, in cui gli confessava, con lucida e fredda razionalità, di aver amato una volta sola e un solo uomo e quell’ unica irripetibile esperienza le sarebbe stata sufficiente per l’ intera vita. Negava a se stessa ogni possibilità di amare ancora e lo pregava di perdonarlo, se qualche illusione gli era nata nell’ animo in conseguenza della loro profonda amicizia.
“ Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto / quello infelice, e pur cercando invano / che non vi fosse quel che v’ era scritto; / e sempre lo vedea più chiaro e piano: / et ogni volta
in mezzo il petto afflitto / stringersi il cor sentia con fredda mano. / Rimase alfin con gli occhi e con la mente / fissi nel sasso, al sasso indifferente.”
La famosa ottava ariostesca apriva la lettera di risposta che immediatamente le fece pervenire. Impietrito dal dolore, come il povero Orlando tradito dalla bella Angelica, ma fermamente deciso a rinunciare ad ogni forma di autoinganno, aveva distrutto le numerose lettere che fino ad allora lei gli aveva scritto, nel tentativo, tutto volontaristico, di allontanare da sé anche il suo ricordo.
Non le risparmiava un’ analisi lucida e minuziosa del proprio stato d’ animo, inserendola infine, con profondissima malinconia, tra le più atroci disillusioni della sua già triste esistenza.
Si erano risentiti poi nuovamente, dopo dieci lunghi anni, e lui l’ aveva riaccolta nella propria vita come un dono prezioso, perso una volta per orgoglio e poi ritrovato con umiltà, come solo può fare un vecchio filosofo, reso più saggio dall’ abitudine al dolore e alla solitudine.
“ Sì, mia adorata, chiamami ogni tanto, sii la mia compagna spirituale, la mia consolatrice, l’ amica.” E Asia ogni tanto (settimane? mesi? anni?) lo chiamava; e lui ” Sì, pronto?” rispondeva, con la solita ansia intrisa di speranza nella voce, come chi aspetta di sentire quella voce e spera che sia quella e solo quella, inconfondibile tra mille, ogni volta che il telefono squilla.