Storia di Raffaele.
“ Pensa che figlio bello avremmo avuto se fosse stato normale!” mi hai detto qualche giorno fa. Ti risposi evasivamente, come per sorvolare sulla realtà, per fuggire. Ma ci penso sempre anch’ io, anzi è il pensiero che mi affiora ogni volta che il mio sguardo si sofferma sui suoi occhi, sul viso così ben scolpito, delicato, candido per il suo stare lontano dal sole, su quella fronte alta dietro la quale immagino un mondo inesplorato. A volte, quando lui mi sorprende ad osservarlo, si turba come se si sentisse violato in qualcosa di intimo che appartiene solo a lui. E in effetti io tento di oltrepassare i confini, cerco di volare oltre quella fronte spaziosa per distruggere la sua solitudine. Mi guarda allora come se gli facessi un attentato.
Raffaele adorato, come potremo comunicare noi, ora che temo anche di avvicinarmi a te e ti nego le carezze e i baci?
Penso ai primi anni della tua vita che ormai fanno parte del Paradiso, il luogo dove sono stati salvati i momenti belli di tutte le creature. Ci ritroveremo lì un giorno a ricongiungere i fili spezzati dell’ esistenza e allora ti ritroverò piccino e mi dirai “ Mamma, dove sei stata?”. Ricominceremo da lì e finalmente saprò ciò che non ho saputo darti. Una vita parallela in un mondo parallelo. Sarebbe bello.
Partiremo da lì, dalle coccole e dalle frasi che mi dicevi quando eri bambino, fino a giungere all’ ultima frase che mi ripetevi in continuazione “ Ti voglio tanto bene… tanto bene… tanto bene… bene…”. In ultimo dicevi solo “ bene”, poi, più nulla ci fu dopo quella frase. Il buio totale seguì a quel tuo addio.
Ora che è nato un mio pronipotino che sta crescendo bello e sano, sto scandagliando il nostro percorso di vita, per trovare il mio punto debole. Penso, infatti, di non essere stata la mamma giusta, di non aver saputo capire le tue necessità. No, non è il solito stereotipo della “ mamma fredda” del Betthleim che si riaffaccia, perché l’ origine del tuo male è organico e io sono stata sempre con te e ti ho riempito di coccole, ma non ho saputo leggere l’ insorgere del tuo male. Mi sfuggì la gravità di certi movimenti e di certi suoni. Ora sospetto che siano stati causati da crisi epilettiche durante il primo mese di vita. Pensai allora che fossero cose normali nei neonati. Invece qualcosa accadde nel tuo cervello; il male colpì.
Dormi, amore mio, dormi.
Mi chiedo cosa ci sia dietro la tua fronte vestita di silenzio, o quando riempi lo spazio di grida e innalzi una barriera di salti compulsivi. Mi chiedo, ora che dormi, il tuo pensiero. Rimarrò sempre al di qua della barriera, né un dottore né un mago mi potranno mai svelare la causa del tuo negare la vita. Mi chiedo dove posi il tuo sogno quando dormi, se ritorni al passato e rivedi il mio viso di mamma felice.
Nel sonno posso contemplarti a lungo: sei bello e sereno, scompare ogni dolore, non ti sottrai, non sfuggi. Sei tutto mio, ma è un’ illusione che dura un soffio e non va oltre questo tragico congetturare. Vorrei fare qualcosa con te e per te che non sia il semplice darti la medicina. Vorrei.
Quando vedo un bimbo di pochi mesi, dalle guance rosse e robusto, penso che forse non ti ho saputo capire. I libri non danno la vita e io m’ affannavo a studiare. Credevo di trovar sulle pagine di libri scritti da esperti la chiave della mamma brava e del figlio perfetto. Ci sono mamme “ più” affermava Piero Angela in un suo libro, facendo notare che certi bambini straordinariamente intelligenti, avevano avuto mamme super che avevano super stimolato i loro figli. Ora penso che ci siano solo mamme e che le mamme non dovrebbero avere mai paura di agire spontaneamente e che dovrebbero fuggire lontano dagli esperti le mille miglia prima di rinnegare il loro istinto. Il neuropsichiatra Bollea afferma che “ Le mamme non sbagliano mai”.
Dormi, figlio mio, dormi. Sei bellissimo, sei sereno, sei un figlio come tutti gli altri ed io sono una mamma.
Nessuno ti tocca, nessuno può farti del male e questo momento sereno che ci è concesso vorrei prolungarlo all’ infinito, dovresti solo allungare un mano e portarmi nel tuo sogno. Immagino una valle fiorita e solitaria dove c’è anche il nostro Timmi, ricordi? Il cane che ti avevo regalato per farti giocare, per cercare di arrestare il processo di isolamento che era iniziato in te.
Era un cagnolino molto esuberante, forse troppo e ti assaltava con le sue feste tanto che tu dicesti una volta “ Una bastonata!”. Il povero Timmi fu avvelenato perché c’è gente che odia. Lo sognai pochi giorni dopo la sua morte e vagava per i monti verdeggianti, solo, annusando la terra, cercando delle tracce. Forse cercava la strada per ritrovarci. Veniva sempre a prenderti a scuola, ricordi? All’ uscita, pochi minuti prima che suonasse la campanella, prima della nonna Lucrezia, si presentava al cancello della scuola. Quelle colline dove l’ ho visto passeggiare nel sogno potrebbero essere la visione del mondo parallelo dove poter continuare la vita
“ Mamma dove sei stata?” mi chiederai quando ci ritroveremo.
Io sono stato felice, sai? E ti attendevo. Qui vengono tutti i bambini che muoiono e quelli che sulla terra non riescono bene.
Sì, quelli che sulla terra non riescono bene. E ce ne sono tanti. Stiamo tutti qui in attesa e quando arriva una mamma, questa prende il suo bambino per mano e insieme se ne vanno nel mondo parallelo a continuare da dove si sono lasciati, a vivere un’ altra opportunità.
Te ne sei andato da me a tre anni. Piangevi inconsolabile, ricordo, all’ insorgere del tuo male, e nel tuo pianto dicevi “ La nonna Gemma dov’è? Chiamiamo la mamma!” E io e la nonna eravamo lì con te, sbigottite perché non ci vedevi. Ti chiamavamo ma non ci sentivi più nel tuo andare avanti e indietro per la stanza come un animale ferito. Avevi crisi di pianto incessanti e mi ostinavo a portarti a Roma alla psicoterapia, convinta che, se non avessi fatto quel percorso, non sarei riuscita a salvarti. Ora, con il senno di poi, penso che la psicoterapia ti abbia veramente danneggiato contribuendo a farti sprofondare in un baratro senza fondo. Ma come opporsi agli esperti? Ti vedevo scivolare sempre più lontano da me senza riuscire a fermarti e la mia unica speranza era la fede negli psicologi. Credevo. Sì, lo credevo fermamente. Andai da loro per avere delle risposte e invece ebbi solo domande che mi disorientavano. Sempre e solo domande quando io interrogavo Iddio e i Santi, tutti i giorni, per avere risposte.
Ricaddero su di noi familiari solo colpe.
Passai in rassegna la mia vita e inorridii per ogni mio piccolo peccato che si trasformava in misfatto.
Mi accusai di tutto e incolpai anche le persone care della famiglia. Ci accusammo a vicenda, non apertamente, ma tacitamente. Aleggiò il sospetto su tutta la famiglia come se l’ orrore ci avesse guidato nella vita. Fino ad allora.
Solo ora, dopo anni di bufera, scomparsa la maschera del dolore, mi rimane l’ amore per filtrare la tua immagine. Ti guardo. Sei per me un figlio che mi consente una grande libertà. Posso leggere, scrivere, passare ore al computer, dedicarmi alla casa: tu non chiedi niente. Non devo stare in ansia per te fino alle cinque del mattino. Non mi spaventano la droga o le cattive amicizie. Non mi addoloro per risultati scolastici poco soddisfacenti. Spio dietro le quinte e aspetto: mi basta un sorriso e spesso lo trovo. Sono una mamma fortunata.
“ Fabrizio… chi è?” Mi chiedesti una mattina, nel mio letto, poco dopo il tuo risveglio.
“ Fabrizio è un amico, ti vuole bene” risposi. Ero al settimo cielo perché avevi pronunciato quella frase. Non parlavi più ormai da mesi e mi sembrò un miracolo ascoltare quelle parole. Avevo notato il tuo grande sforzo nel formulare la domanda come se pescassi a stento le parole da un pozzo, che risuonavano comunque atone, senza la cadenza giusta…” Fabri- zio-… chiè”
Fabrizio era il terapeuta e uno dei migliori. Nessuna colpa a lui che faceva bene il suo mestiere.
Erano già mesi che frequentavamo la psicoterapia a Roma per tre volte la settimana, erano già mesi di pianti disperati e continui, ore e ore di pianto inconsolabile.
“ Signora, la terapia si deve fare” mi disse il terapeuta Fabrizio
Come ribellarsi agli esperti?
Ora so che una mamma si deve ribellare agli esperti.
Una sera ad una festa, una giovane mamma in attesa mi confidò le sue paure. Paura nell’ educare un figlio. Come porsi in relazione? Le risposi con una determinazione che mi stupì, forte ormai di una saggezza sopravvissuta ad una lotta senza quartiere. Le dissi che proprio la paura era il primo male da debellare, lo scalino sdrucciolevole sul quale cadono i genitori di oggi. La paura di non essere adeguati, la paura di correggere. Una mamma si deve ascoltare e deve agire senza paura di sbagliare. Forse sbaglierà, non importa. Tutti sbagliano. Nessuno ha la formula giusta, ma la mamma deve agire, deve fermare, deve dire di no, perché sono i messaggi occulti che arrivano a danneggiare, non le parole. E anche se le nostre parole sono rassicuranti, il bambino recepirà la nostra paura.
Sei stato la mia gioia, lo sapevi, e spero che te ne ricordi ancora, anche quando mi afferri per i capelli. Che cosa succede in quei momenti? Attraverso le tue mani mi raggiunge una forza sovrumana di rabbia. Sembra allora che tu voglia distruggere la mamma che non ti capisce o la mamma che ti ferisce, pensando che tu non comprenda. Capita spesso che io sorvoli sulle tue capacità o che oltrepassi la soglia del rispetto, magari indicandoti la pasticca caduta sui pantaloni o impedendo la realizzazione di un tuo semplice desiderio. A volte vuoi ritornare a letto subito dopo la toletta del mattino e io te lo impedisco senza pensare che in quel momento forse hai bisogno di silenzio perché qualcosa nella tua testa ti disturba. Ci sono rumori per te insostenibili. L’ ho capito ora e ti rispetto. Non posso costringerti a torture solo per assecondare le teorie degli esperti. Me lo fai capire tappandoti le orecchie.
Ti ho costretto alla socializzazione e l’ ho fatto passando sopra a ogni tua esigenza, senza ascoltare il tuo pianto. Dovevi socializzare. E anche oggi per farti socializzare ti ho mandato ad un centro dove trascorri il tempo tra un angolo della cucina e il gabinetto.
Anch’ io sono caduta negli errori di tutti i genitori, quello di volere un figlio perfetto, il più bravo, il più avanti, il più.
Ogni genitore desidera che suo figlio sia il più e che sia sempre avanti a tutti nella corsa ad ostacoli della nostra società.
Stamattina ti abbiamo fatto il bagno, ti abbiamo vestito e sei partito tranquillo sul pulmino del centro di Morrano.
La finestra delle emozioni è chiusa e è aperta l’ altra, quella che si affaccia sul giardino, dove ogni aiuola è ben definita anche se ci sono le solite erbacce, mai finite di strappare e i rami della potatura ammucchiati qua e là in attesa di essere bruciati. Sono capace di chiudere finestre e di aprire quella giusta all’ occorrenza, anche quella dell’ allegria. “ In perfetto stile autistico” mi disse un giorno il terapeuta. Rimasi colpita da questa affermazione: Forse anch’ io ho un handicap causato da una sofferenza alla nascita. Avevo il cordone ombelicale intorno al collo e la levatrice per fortuna fu veloce nel togliermelo, mi disse mia madre. Fu abbastanza veloce ma potrei avere avuto un attimo di sofferenza. Basta un attimo perché il cervello di un feto subisca un danno e io a volte ho la sensazione che, per comprendere, debba usare canali diversi da quelli degli altri. In tutti gli apprendimenti ho bisogno di un metodo tutto mio, ho bisogno di isolarmi per muovere le leve dell’ acquisizione. In lievissima parte sono autistica anch’ io.
L’ “ io”, questa piccola potente parola. L’ ho trovata scritta dietro una fotografia che mi ritrae piangente il giorno delle nozze d’ oro dei miei nonni, Vittoria e Achille. Non volevo fare la foto, ecco perché piangevo. Ma rivedendo quell’ “ io” incerto scritto da una bambina di cinque anni,
all’ improvviso ho ricordato che piangevo perché volevo fare la foto da sola e non in gruppo con tutti i parenti. Bell’ egocentrica vero? O era paura di scomparire?
Sotto a quel tremolante io mio padre scrisse poi “ Piccola Vera Bianchini”, spiegandomi che quella parolina da sola,“ io”, non volesse dire niente e chi leggeva non potesse capire.
“ Io” il mistero dell’ esistenza, quella parolina persa nel mare dell’ esistenza.
Mi faceva paura tutta quella marea di persone. L’ io che scompare annegato. A te fece paura il mare e la mamma che vi si immergeva ti causò un orrore indescrivibile. Lo voglio dire. Ti picchiai pure per farti tacere. E poi avvertendo tutta l’ immensità del baratro in cui eri caduto ti abbracciai stretto stretto finché non ti placasti. Fummo abbracciati a lungo, persi nel vortice di un gorgo sconosciuto.
Ecco che si è riaperta la finestra del dolore. Non posso rimanere a lungo affacciata sul giardino a contemplare le aiuole. Basta poco per riaprire le ante chiuse, una folata di vento traditore e ti ritrovo, bambino mio ancorato a immagini vive come se fossero scattate oggi. Ti rivedo all’ Isola del Giglio che mi segui per le strade del Castello mentre fotografo gli angoli più suggestivi. C’è una foto bellissima che ti scattai all’ improvviso. Neanche tu volevi fare la foto e abilmente ti mettevi fuori campo. Alla fine ci riuscii. Cerco di leggere quell’ espressione, di interpretarla. Un sorriso di sorpresa e di gioia nel vedere che la tua mamma scattava una foto a te invece che alle case e ai vicoli. Avevi dubbi, amore mio? Eri geloso?
Sì, eri geloso. Per questo ricopristi la mia cinquecento di sassi quando andai a fotografare i casali per la campagna di Castel Giorgio insieme ai miei alunni. C’ eri anche tu, ti portavo sempre con me, ma stavi in disparte e scontroso. Seguitai nel mio lavoro di fotografa dentro il casale e al mio ritorno trovai la macchina ricoperta di sassolini.
Dimostrazione di gelosia ma anche di un disagio organico. Un bambino capriccioso – si pensava- bisogna “ stignarlo”. E non seppi capire la patologia in atto. Un bambino tiranno ti definì il neuropsichiatra.
Il bambino tiranno.
Mi sembra di leggerlo questo titolo in qualche bravo volume di psicologia. E per smontare il bambino tiranno il neuropsichiatra ci sottopose a torture indescrivibili. Dovevamo fuggire all’ improvviso io e tuo padre, senza lasciare traccia, senza avvertire nessuno e ritornare dopo tre o quattro ore, non ricordo bene.
Mio Dio, gli esperti bisognerebbe renderli innocui. Perché dare ascolto agli esperti quando prescrivono cose insensate?
” Dov’è andata la mamma?” Così chiedesti, piangendo, alle nonne che non seppero risponderti.
Bambino mio, oggi grande, oggi giovanotto, forse innamorato. La ragazza che viene a prenderti per accompagnarti in piscina ti fa battere il cuore. E’ bella e tu la segui contento, le sorridi, le porgi la guancia. Siete due giovani bellissimi. Anche questo è un amore e tu lo vivi passeggiandole accanto, rispondendo al sorriso e serbando il suo ricordo.
“ Dov’è”? Questa frase la pronunci spesso. E’ una delle ultime mie martellanti domande nel tentativo di fermare la tua regressione verso il silenzio irraggiungibile. Leggevo come una disperata tutte le migliori pubblicazioni sull’ argomento “ autismo” e poi cercavo di applicarle. Il bambino fugge, si chiude dentro il suo mondo per proteggersi dall’ ambiente esterno troppo devastante per lui.
“ Dov’è?” “ E’ qui” chiedevo e rispondevo.
Ti togliemmo dal mondo in cui stavi allargando gli orizzonti, pensando che quello fosse la causa del tuo male. Ti togliemmo alle nonne, alle cose a cui eri abituato, creando scompiglio nella tua vita che aveva bisogno di certezze e ti lanciammo nel mondo degli altri senza sapere che dovevi esservi introdotto gradualmente. Eri autistico e non lo sapevamo.
Avresti avuto bisogno di un’ introduzione graduale nella società. Ma una mamma disperata che vede sfuggire il suo bambino non sa fare altro che salire sulla macchina, andare in un luogo solitario e urlare, urlare un urlo disumano che le giungeva da una caverna dell’ anima che non sapeva di avere. Urlare per sfuggire alla tenaglia della vita che la stava serrando. Urlare per essere sentita da Dio. Un Dio distratto, troppo distratto.
E poi leggere documentarmi sulle vie da seguire per arginare il tuo malessere e poi correre. E tu vedevi una mamma che si trasformava, che aveva la disperazione negli occhi, mentre ti scaraventavo all’ asilo per farti socializzare. Vedevi crollare il tuo mondo, quello che ti aveva aiutato ad essere bambino delizioso. Bambino gioioso. Così ti chiamavo.
Le nonne, e soprattutto la nonna Gemma, erano state le compagne dei tuoi giochi. Con loro facevi tutto: giocavi con le macchinine, ma soprattutto leggevi. I libri erano la tua passione.
Fiabe, storie, filastrocche imparate a memoria e poi inseguite col dito, parola per parola, sul libro. A tre anni avevi già una biblioteca nella mente, ma non amavi stare con gli altri bambini. Questo era il cruccio di noi genitori. E tu guardasti con ansia l’ ansia di noi genitori. Ti avvolse una paura incontrollabile nello scoprire la paura nei nostri occhi e in quella delle nonne. Non dimenticherò mai l’ immagine di quella volta all’ asilo, quando ti portai la pizza per colazione. Prendesti la pizza e ti mettesti in disparte in un angolino del corridoio, lontano dagli altri bambini, voltando loro le spalle, triste, rassegnato, lontano anche dalle maestre. Avevi tre anni. Ebbi un tuffo al cuore. Avrei voluto prenderti e portarti via subito da quella tristezza. Ma non potevo toglierti dalla socializzazione. Gli esperti insistevano. Severa, bambino mio, fui severa. Ora non ripeterei più quell’ errore sapendoti diverso. Se non ti avessi mandato all’ asilo, forse ora avrei un ragazzo che parla. Autistico sì, ma che parla e ha voglia di vivere.
Sento il coro di protesta di tanti “ No, no, non è stata quella la causa, Raffaele sarebbe stato comunque così com’ è ora”.
State zitti voi che non sapete, rispondo. Nessuno mai ha saputo darmi una risposta. Io invece so tutto della sua vita.
La nonna Gemma fu l’ ultima a credere nella tua diversità, per lei eri il bambino più bravo e tu, durante le crisi di pianto che si scatenarono quando iniziai la psicoterapia a Roma, chiamavi lei. Penso che nel mare in cui ti sentivi sprofondare, lei ti appariva come l’ ancora della salvezza. “ La nonna Gemma dov’è. Chiamate la nonna Gemma”. La nonna Gemma era lì, e ti chiamava, ma tu non vedevi e non sentivi più nessuno.
Raccontavo questi episodi agli esperti pensando che potessero aiutarci a trovare la giusta strada. Non ci furono mai risposte dirette, non ci furono strade. Sempre e solo domande. Ho ripetuto la tua storia milioni di volte, l’ ho anche scritta, quella standardizzata come vuole la scienza, e ora è in un cassetto e non la leggo più. Ora voglio scrivere la vera storia che spero possa servire a qualcosa per la tua vita futura.
“ Ti auguro che Raffaele muoia il giorno dopo che muori tu”
Io voglio che Raffaele viva, risposi, e che stia bene.
Mia cugina, che mi vuole bene e che è intelligente mi ha fatto questo augurio. Ma io non posso pensare alla morte come la migliore soluzione per te, figlio, non posso pensare a te senza sole, dentro quattro assi. Voglio che tu viva più a lungo possibile, che possa continuare a guardare l’ azzurro del cielo anche dopo di me.
E invece è successo. Ma non come ci aveva augurato mia cugina. Te ne sei andato in punta di piedi
Il giorno dopo del mio compleanno: mi hai lasciato festeggiare, hai anche apprezzato la mia torta
e poi.
E poi fine.
Chiusa la parentesi felice della mia vita. Ho sognato, solo sognato. Oppure sto sognando ora.
Ma quando mi sveglio?
Una parentesi lunga ventotto anni. Un momento di felicità durato tre anni e mezzo. Un dono grande
Del quale non finirò mai di ringraziare Dio. E poi ci fu il dolore, e comunque, anche nel dolore, sei stato la felicità, l’ amore, la speranza.
Ora non ho più niente e si condisce tutto di amaro.
Ma tu sei stato coraggioso, ragazzo mio, non hai avuto paura della morte.
Le sei andato incontro senza indugio
e ora sei di là e m’ insegni
che non è poi difficile il passaggio
e che non è così tremendo l’ oltre
se ci sei tu
così giovane e bello
col tuo viso sereno.
V. B.