Tutto ciò di cui avevamo bisogno, che i nostri cuori bramavano, lo avevamo intorno a noi. Nulla ci serviva, niente avremmo dovuto chiedere al cielo turchino che faceva da tetto ai nostri sogni. Eppure, come chiunque altro, come fu per Eva, eravamo irrequieti. Non riuscivamo a restar dentro quel mondo denso di miracoli quotidiani.
Dolce il sapore del mare. Tiepido il calore del sole. Tenue lo spirare del vento.
Immersi nella conca ad est dell'isola, avevamo addirittura un gigante addormentato, con una candela in fronte, che proteggeva i nostri amplessi quotidiani con una natura rigonfia di vita.
Nulla si doveva temere, niente avremmo dovuto patire, ché ciò che occorreva ai corpi lo forniva gratis la Grande Madre, ciò che abbisognava alle nostre anime, quotidianamente, ce lo donavamo senza parsimonia. Era bello vivere e la Morte nei nostri cuori non trovava spazio.
Eppure, come uccelli migratori, che nessuno ben conosce il motivo per cui abbandonano i loro nidi per fuggire lontano, eravamo irrequieti e, benché gratificati dal dio della gioia, inquieti, scrutavamo con ansia quel filo oscuro che tien la misura del mare e della terra.
Giovani, si era. E come la vita pulsa nei virgulti che forano il terreno, in noi scorreva sangue selvaggio di indomiti puledri che, sebben pasciuti e curati dentro la stalla, guardano con ardore oltre la staccionata.
Quel paradiso, fra colli, impregnato del profumo del mirto e del rosmarino, accarezzato dal canto dei grilli e delle cicale e baciato dal vento, non riusciva più a contenere la nostra esuberanza: giovani eravamo, questo il nostro delitto. I nostri amplessi diurni non chetavano le corse dello spirito ribelle che scalciava dentro di noi, e fu che quelle corse ci condussero a superare il limine fra noto ed ignoto. Noi, il mistero volevamo, e il mistero avemmo.
Una radura deserta, irta di cespi e prugni rinsecchiti, accolse il nostro sguardo. E il mordicchiar dell'ansia che ghermì i nostri cuori, non fu abbastanza per ingiungerci imperioso di rincorrere le nostre orme e ricondurre corpo e cuore al riparo, nella festosa conca.
Non più muschio per cuscino, né fronde di lecci per tetto. Niente danze della lepre o insolenze della volpe, solo cenere e sassi neri. Niente più nubi ovattate, ma nembi plumbei e un raggio che, lamina ossuta, macera pelli e cuore.
Eppure, lo spirito non fu domo. Ci condusse oltre, tenendosi stretto per mano con l'ultima invitta dea, menzogna menzognera. Lassù, oltre la rupe che, sovrastante l'imperioso e tumultuante fiume, spiava i nostri passi e scrutava le nostre intenzioni.
Spaurita lei, ebete, con un finto sorriso di coraggio, io, proseguimmo per dar requie all'inquietudine e per dannare il cuore. Lassù, a sfiorare il cielo bigio e accarezzare il sole di fuoco. Perché? Il cuore non sente ragioni.
Il nostro fremente sguardo si sperse nel rimirar cupi e umbratili
Paesaggi disperati.
Acre sapore di raspi di vite stretti fra i denti. Spogli oramai dei succosi rubizzi acini da cui festoso un dì spillava gioioso il nettare che inebria la mente. Raspi avvizziti che negan l'oblio, unico farmaco che potesse lenire l'ansia e l'angoscia di essere là..
Con scarnificate dita di morte, i rami ritorti d'alberi morti raccolgono la grassa bruna terra che, mentre l'osservi, s'immiserisce in arida sabbia. Ove non radica frondoso l'albero, ma solo l'arbusto e lo sterpo di uno spoglio paesaggio riarso dal sole cocente, percosso da venti impetuosi, che recano seco né vita né spore da cui gorgogli altra vita e speranza.
Uno sguardo sperduto a vagare su piatte radure sempre uguali a sé stesse, che han perso il ricordo del trillo festoso del grillo, del canto allettante della capinera. Occhi stanchi e arrossati, sperduti a guardare lontano, oltre quel limine rosso che è cornice al patire di tutti, che oblia lo sfuggente passo danzante della lepre. Occhi per sempre dimentichi del della corsa felice di esseri scordati da Dio.
E' il deserto che impera; il freddo che brucia le foglie dell'ultima flora ed avvizzisce le pelli di esseri sparsi per caso e ignorati per sempre.
Uomo, sospeso un attimo solo a vagare nel nulla, nel buio del tempo, errante, senza meta e riparo, fra le desolate lande dell'Anima. Che ruba un sorriso a quei miseri sassi ove poggia i suoi piedi. Soldati di una guerra mai combattuta e persa per sempre; alfieri di sogni che son uggia divina.
Nel Silenzio di Dio, più sali le scale, più vedi lontano quell'orlo di luce che sovrasta ogni cosa; più la corsa è affannata, più la distanza si accentua. E' tanta la strada percorsa che tanta ne rimane da compiere. Qual strano insensato tragitto privo di meta ha previsto per noi l'invitta Matrigna: fra sassi e polveri scure, intrise di sangue...
Paesaggi privi di pace si parano dinanzi ad occhi infossati e sfiniti, a piedi piagati, ad anime stanche che emettono un urlo.
Vagare nel nulla, null'altro ci resta, nel Silenzio di Dio. Rubare fiacche parole a genti più fiacche e sfinite di noi, per udire o sognare un suono gentile che non sia un rantolo o un crampo di stomaci vuoti. Le mani protese nel vuoto a stringere aria pesante, ove è assente il Logos di Dio, ove greve è il lamento dell'uomo, che intona inutili canti d'amore e solenni preghiere mai udite da altri che non fossero uomini mesti, che, chini, camminano stanchi nel cupo obbrobrioso Silenzio di Dio, la cui unica eco è il greve tonfo dei passi che percorrono vie inscritte in un sogno... quell'inutile sogno di essere eterni, la cui vana certezza che si compia, alfine, quella vile promessa, nata una notte di sogno che danna da sempre, che estorce e giustifica pianti, lamenti, vagiti, gemiti di chi tanto ha sperato, già sterile si sfalda d'un fiato al torrido fuoco di un sole sempre più nero, tramutandosi in cupo lamento, che è la fine della nostra inutile unica vita. | |