Parte 1
.PROLOGO
Mi chiamo Giulio Bersani, ho diciannove anni, e frequento l’ ultimo anno del liceo classico Beccaria di Milano.
Sono di statura media. Di costituzione sono abbastanza robusto ma allo stesso tempo magro.
Ho capelli biondo cenere e occhi verde- chiaro, che tutte mi dicono siano molto belli e intriganti.
Provengo da una famiglia di ceto medio- alto e faccio una vita come tutti i ragazzi d’ oggi: moto, macchine, ragazze, qualche rissa sono il mio mondo.
A volte mi sento superficiale ma poi mi dico che non è così: tutti quelli che conosco fanno quello che faccio io.
Un po’ è monotono ma spesso il mio gruppo trova qualche diversivo, come sfondare a qualche festa o prendersela con qualche altro paninaro o, meglio, con qualcuno dei centri sociali.
Mio padre se n’è andato di casa con un’ altra donna quando avevo solo tredici anni ed ora vivo in una bella casa in Via Mario Pagano, una zona centrale, con mia mamma Beatrice, che lavora in Fininvest e le mie sorelle più grandi Emanuela, di ventitre anni, che fa ancora il primo anno di Economia e Commercio alla Bocconi, e Laura, di ventiquattro, che lavora in banca.
Ho appena preso la patente e mia mamma mi ha regalato una Golf cabrio ultimo modello. E’ la macchina che ho sempre sognato: bianca, coi cerchioni in lega e lo stereo mangiacassette dove posso ascoltare i miei pezzi preferiti (amo i Duran Duran). Va veloce e, mentre guido col vento in faccia, riesco a distogliermi dai miei soliti pensieri.
Sto andando ad Arenzano, sulla costa ligure, a trovare la mia ragazza Emma.
Non è una bella serata: piove a dirotto, come spesso capita in aprile. Inoltre ho bevuto abbastanza e ho i riflessi un po’ rallentati.
La visibilità è molto limitata: attraverso i movimenti del tergicristalli, che sta andando al massimo, riesco appena ad intravedere le luci di posizione delle macchine che mi precedono.
E poi quel tratto tutto a curve della Serravalle è molto insidioso: è sufficiente un minimo errore di traiettoria per andare dritti in qualche tornante più stretto.
All’ improvviso, mentre sto cautamente sorpassando un Tir, questo scarta dalla sua corsia e urta la mia fiancata destra.
Sbando sull’ asfalto scivoloso.
Perdo del tutto il controllo.
E’ la fine, penso.
Un urlo, uno schianto, rumore di lamiere e poi… poi il buio.
La notte si dilata in uno spazio sconosciuto e senza tempo. Adesso sono proprio sopra la strada e vedo quel maledetto Tir scappare via veloce mentre, di fianco alla mia Golf accartocciata, con la capotte sventrata, il mio corpo giace supino.
Non sento dolore.
Avverto solo uno strano senso d’ angoscia, ma sono sicuro che non sia la paura dell’ incidente.
Sto pensando a mia madre, realizzo di colpo. Mi immagino il mio funerale e vedo una bara spoglia, portata da alcuni amici sinceri e seguita dalla mamma, dalle mie sorelle e da poca altra gente. Mentre il feretro passa per la strada, viene osservato solo da un po’ di curiosi che commentano a bassa voce e fanno gesti scaramantici.
Vedo la mia macchina e me stesso dall’ alto e mi sembra di far parte dell’ universo: le stelle luccicano alte e maestose nel formare le figure note ed una falce di luna occhieggia gentile.
Mi sento tormentato perché vedo la mia vita svanire e non so cosa mi attende.
Poi, dopo un po’, come sospeso in una strana dimensione, vedo i soccorsi avvicinarsi velocemente al luogo dell’ incidente, scendere dall’ ambulanza e avvicinarsi al mio corpo mezzo maciullato.
Tra le tante voci dei paramedici che si accavallano, ne sento una distintamente. Uno di loro urla: “ E’ vivo!”
E’ un grido nella notte silente, un’ isola di speranza dove rifugiarmi, un sollievo per la mia ansia, la mia paura di essere morto una volta per tutte.
Una domanda mi scuote la mente stanca: “ Se sono vivo, perché vedo dall’ alto me stesso?”
Mi dico che, forse, sto sognando e la mia anima è già lontana dal mio corpo.
Forse mi aspetta l’ aldilà.
Forse vedrò Dio e capirò tutto di questa mia vita sprecata tra sbornie, risse e corse in moto.
O forse la mia compagna sarà per sempre l’ oscurità perché, magari, dopo la morte non esiste niente.
Mi sento sballottato: un rumore di motore, voci che riecheggiano, una corsa disperata nella notte.
Piano piano riprendo una strana forma di conoscenza: so di essere vivo, sento d’ essere rientrato nel mio corpo. Sento anche d’ aver perso tutti i sensi a parte l’ udito e l’ olfatto: non riesco più ad osservare le cose che avvengono intorno a me come quando ero sospeso nel nulla.
Mi sforzo di aprire gli occhi serrati, come se sulle palpebre gravasse un macigno. Non ci riesco. Non vedo nulla.
Scorgo solo luci confuse, come quando si fissa una forte lampadina colorata attraverso le ciglia e si intravede una sorta di arcobaleno.
Non riesco a muovermi.
“ Forse mi hanno riempito di morfina”, penso.
Vorrei dire a tutti che non è niente di grave, che in fondo sto bene, ma non riesco a parlare: non muovo neanche la bocca.
Sono racchiuso dentro al mio corpo, vigile e cosciente, ma come murato vivo.
Allora mi vengono in mente quei film visti e rivisti in cui il protagonista viene sepolto vivo e sta morendo soffocato per poi essere salvato, all’ ultimo momento, dall’ eroe di turno.
Ma almeno lui può muoversi.
C’è qualcosa che non capisco.
Se sono rimasto paralizzato agli arti, magari anche alla schiena, perché non riesco almeno ad aprire gli occhi?
Può darsi che abbia preso una brutta botta alla testa e che sia completamente rintronato.
Ma io, dentro di me, sono lucido.
C’è qualcosa che non capisco
Riprendo il filo della mia coscienza
Riprendo il filo della mia coscienza senza sapere né l’ ora, né il giorno né dove io mi trovi.
Sento, tutt’ intorno a me, il profumo tipico delle stanze di ospedale e, anche per il velato baluginì o del ricordo della corsa in ambulanza, suppongo di essere in un posto del genere.
Non ricordo di aver registrato sensazioni simili ad un luogo tipo pronto soccorso o corrispondenti ad un ricovero.
Sono molto confuso. Non riesco nemmeno a capire se io sia in piedi oppure sdraiato.
Sento un vociare lontano di donne e d’ un tratto, captando in lontananza il senso dei loro discorsi, capisco. Sono infermiere.
Adesso sono sicuro di essere in un ospedale.
Di questo sono certo.
All’ improvviso si apre la porta della stanza ed avverto delle presenze a me note.
Sì, certo, le conosco bene, e sono molto preoccupato all’ idea dell’ impressione che potrei suscitare.
Mia mamma Beatrice è una donna alta e di bell’ aspetto: ha occhi magnetici verde- nocciola e capelli biondo- chiaro che le incorniciano un viso un po’ rotondo ma molto dolce. E’ una donna ancora dotata di un certo fascino, seppur provata dalle vicissitudini della vita.
Ripensando al suo aspetto, mi appare chiaro perché io sia sempre stato affascinato dalle ragazze bionde con gli occhi neri.
Io ho sempre adorato mia madre.
Si è sposata a diciotto anni con mio padre Carlo, medico, che le ha rovinato la vita andandosene con Anna. Ora, a quarantatre anni, sta entrando in una profonda fase involutiva e di depressione tipica di chi vede trascorrere il tempo e si sente sempre più irrealizzato.
E’ molto pignola e da me pretende molto. Non sempre io l’ ho ripagata delle sue aspettative con la mia vita un po’ sciatta e un po’ bruciata, sempre ai margini delle cose e degli avvenimenti famigliari.
Fa costantemente un dramma anche delle cose più banali e, quindi, vedendomi addirittura in questo stato, m’ aspetto che pianga ma non che mi dica: “ Giulio, figlio mio, m’ hanno detto che dopo l’ incidente sei entrato in coma. Sono disperata…”
Sentendo queste parole tutto mi appare più chiaro e non so come abbia fatto a non esserci arrivato da solo ma, probabilmente, quel torpore che mi ha pervaso mi ha annebbiato la mente.
Ecco le sensazioni extracorporee, ecco perché non riesco a muovere un muscolo e nemmeno ad aprire gli occhi.
Poi, d’ improvviso, sentendo mia mamma soffrire, tutti questi pensieri si dissolvono e sento nella mia anima, attanagliante come una piovra coi suoi tentacoli, un’ angoscia agghiacciante che mi sconquassa le viscere.
Forse non mi sveglierò mai…
Forse resterò sempre così…
Sento con stupore la voce della mia sorella più piccola.
Emanuela è veramente una bella ragazza. Ha ereditato sicuramente tutto da mia madre: alta, con gli occhi nocciola, lineamenti perfetti, capelli biondi e ricci. Per il suo fisico, avrebbe sicuramente potuto fare la modella. E’ sempre stata attorniata, sin dalla tenera età, da un sacco di ragazzi che la corteggiavano: alcuni erano arrivati addirittura a seguirla per strada, come le riferivano poi le sue amiche, o ad aspettarla sul pianerottolo del nostro condominio.
Mi dice: “ Giulio, fratellino mio, mi manchi tanto. Ti ricordi quando da piccoli giocavamo nella casa in campagna di papà? O quando, più grandi, correvamo insieme a perdifiato per i campi odorosi, appena mietuti da quei contadini che a fatica avevano trascinato gli aratri tra le zolle, vestiti di cenci, così logori che ai nostri occhi apparivano buffi? Svegliati, fallo per me, e ti prometto che d’ ora in poi spezzeremo lo stesso pane, saremo amici inseparabili ed io non ti lascerò più solo…”
Le vorrei rispondere con tutte le mie forze. Mi sento scosso dallo sforzo che sto facendo. Mi rassegno impotente, perché mi accorgo di aver la mascella serrata, i denti l’ uno sopra all’ altro.
Non so come, trovo la forza di ridere ripensando alle sue parole: si esprime con concetti astratti, un po’ complessi. Per diletto scrive poesie e, non a caso, nel modo di parlare viene fuori questa sua parte importante.
Emanuela è sempre stata così…
Ho finito da poco la terza media e la vedo tornare a casa, l’ aspetto solare come al solito.
La sento dire a mia madre (ha appena finito di frequentare la quarta liceo scientifico) che è stata rimandata in tre materie.
Non è per niente preoccupata. anzi, sembra contenta perché credeva venisse bocciata.
Mia mamma le fa una scenata, sgridandola furiosamente.
Allora lei va in camera e si mette a scrivere.
Mio padre se n’è appena andato di casa con Anna. Lei, come noi tutti, è rimasta molto turbata.
Quando mi fa leggere la poesia che ha scritto non ci capisco molto ma rimango stupito:
IL SILENZIO ACUTO DEL MATTINO
Ho annodato
a ciottoli levigati
il fluire dei miei ricordi.
Forse era l’ aurora cremisi
che si specchiava nei solchi
delle rare onde,
forse la magia
del silenzio acuto del mattino.
Forse la quiete infinita
ed il confluire d’ umane speranze
tipici d’ ogni alba
in qualunque angolo del mondo.
Forse un po’ di tutto ciò
mischiato all’ amore per la vita:
e noi in simbiotica armonia
su quei greti ci trovavamo,
padre,
ed era l’ acuto silenzio
delle nostre illusioni,
la genesi
delle nostre buone intenzioni.
Era la folgorante attesa
d’ un alito di luce
a farci muovere,
padre,
laddove ormai sono avanzate
poche manciate di rena
e l’ acqua ha reso canute
persino le amiche conchiglie.
Emanuela è sempre stata così…
Mi sta prendendo un tale senso d’ angoscia che vorrei solo piangere, mostrarle almeno una lacrima per farle capire che ho capito, che per lei ci sono e ci sarò sempre.
Ma non riesco neanche a fare quello.
Poi sento il profumo dei capelli di Laura.
Mia sorella più grande non ha ereditato niente da mia madre: è di bassa statura, magrissima e con uno strano naso aquilino che sporge in mezzo a due occhi verde pallido e le regge un paio di occhiali dalle lenti spesse. E’ invecchiata anzi tempo: oltre alla miopia, già una spruzzata di sale si fa strada nella sua mora e rada capigliatura, rendendola più vecchia di un bel po’ di anni.
Laura è tranquilla e taciturna, introspettiva al punto tale di mettersi a studiare da sola psicologia.
L’ ha fatto per la sua malattia, che lo psichiatra ha detto doveva curare col Dumirox, un potente antidepressivo. Una depressione tale che le aveva addirittura fatto fare domanda d’ invalidità civile. Quando la commissione l’ ha visitata, resasi conto che non mentiva, le ha assegnato una percentuale del sessanta per cento, non sufficiente, però, a fruire dei benefici economici.
Come appartenente a categoria protetta, ha trovato, a ventidue anni, quell’ impiego alla Banca Popolare di Milano e si è così arrangiata da sola staccandosi da noi piano piano, sempre coi suoi problemi.
Io le voglio davvero bene.
La parte più debole detiene sempre il primato di attenzioni in una famiglia.
Poi ho sentito tutto svanire: sono stato preso da una sorta di vigile letargo e, da allora, non ricordo più d’ aver sentito la voce della mamma, delle mie sorelle o dei medici.
Sono entrato in un rarissimo stato di dormiveglia cosciente e mi sono apparse, d’ un tratto, la mia infanzia e tutta la mia giovinezza in una serie di flash sequenziali simili a sogni lucidi, aderenti, soprattutto, ai fatti avvenuti nella Milano degli anni ’ 80.
In vita mia non ho mai pregato, ma ora prego Dio di ridarmi la mia vita: Emma, mia mamma, le mie sorelle e tutti gli amici che ho perso.
Perché sono entrato in una specie di labirinto ed ora fatico tremendamente ad uscirne.
Vedo una foto di me bambino
Vedo una foto di me bambino nel soggiorno di casa mia.
Sono piccolissimo: avrò quattro anni. Ho i capelli biondo- chiari parzialmente nascosti da un cappellino rosso a fiori bianchi e il pollice della mano destra portato all’ orecchio. Faccio così quando ho sonno.
Vicino, nella foto, c’è mia mamma che mi accarezza, il viso vergine di rughe, i lunghi capelli biondi, gli occhi luminosi e pieni d’ affetto, un costume serio che fa da cornice ad un corpo bianchissimo.
Io ho un costumino rosso. Siamo su una spiaggia biancastra e affollata sulla costa toscana, vicino a Castiglioncello, tutti circondati da mamme e da bambini che giocano. Sullo sfondo s’ intravede un mare liscio come l’ olio e verdastro.
Sto dormendo.
Sogno mia mamma che mi tiene in braccio dopo una lunga camminata per le vie del centro. L’ accarezzo e lei mi risponde gentile, con quello sguardo che le è rimasto negli anni e che sembra parlare da solo.
Mi è impressa un’ altra foto più recente che custodisco geloso nella mia camera; quando la guardo sento una voce che mi sussurra dolce le risposte alle mie domande, dicendomi se sono sulla strada giusta oppure se sto sbagliando in qualcosa.
Mi sveglio bruscamente, sentendo le grida concitate di alcuni bambini che giocano intorno a me.
Quasi mi viene da piangere per lo spavento, ma sento mia mamma accarezzarmi e dire: “ Hai riposato bene, amore mio? Sai, sono arrivati tanti bambini con le loro mamme. Ti va di andare a giocare con loro?”
Io annuisco, scendo dalla sdraio e mi avvicino con circospezione, quasi con la paura di venir visto: loro sono più grandi ed ho paura che mi prendano in giro, con quel fare canzonatorio ed irriverente che tutti i bambini hanno verso i loro coetanei e, soprattutto, verso i più piccoli.
Mi ricordo di una volta che uno mi ha detto testualmente: “ Sventolone, sembri Dumbo!”
Io mi sono messo a ridere, con quel gridolino innocente tipico di ogni piccolino. Ma quelle parole poi, negli anni, mi hanno aperto una ferita che ancor oggi non sono riuscito a rimarginare: adesso porto i capelli un po’ lunghi e ho due ciocche che mi coprono le orecchie.
Decido di mettermi a giocare da solo, cercando approvazione nello sguardo di mia madre che subito mi lancia un’ occhiata complice.
“ Dai, Giulio, prova a costruire dei castelli di sabbia”, mi dice.
Io non so bene da che parte cominciare.
Immergo la mano nella rena calda e fine e mi soffermo a vederla cadere con la lentezza di una clessidra, creando una montagnola rotondeggiamte. Poi provo ad andare a prendere un po’ d’ acqua sul bagnasciuga e la porto dov’ ero. Riesco a creare un impasto molliccio e, armato di secchiello, forgio, non senza difficoltà, dei cilindri che io immagino siano torri.
Passa un bambino più grande e mi dice: “ Adesso ti rovino tutto quello che hai fatto!”.
Io gli dico di stare fermo, vorrei difendere il castello, ma lui è più grande e mi abbatte le torri.
Adesso ho paura.
Guardo verso la mamma ma lei sta leggendo.
Il bambino s’ accorge e mi dice: “ Ehi, bamboccio, vuoi la mamma?”
Quelle parole mi sono entrate dentro in maniera indelebile.
Sono disperato e lancio un grido.
“ Cos’è successo, Giulio?”, mi chiede preoccupata la mamma.
“ Mi ha rotto il castello”, rispondo io con un filo di voce.
“ Cosa hai fatto al mio bambino?”, dice lei inviperita.
In quel momento arriva una donna bellissima.
“ Mi dispiace, signora, ma Gianluca è così. Siccome lui non è capace di fare niente, quando vede che qualcuno ha costruito qualcosa di bello glielo vuol sempre distruggere…”
“ Ma non è il modo di fare!”
“ Ha ragione, signora. A casa lo sgriderò sicuramente.”
“ Va bene, sono cose da bambini.”
“ Piacere, io mi chiamo Anna.”
“ Piacere, Beatrice.”
“ Perché non provate a fare la pace e a giocare un po’ insieme adesso?”
“ Va bene, mamma”, le risponde Gianluca chiaramente in soggezione.
“ Costruite una pista e fate una gara con le biglie”, dice mia madre.
“ Sì, giochiamo.”
“ Di dove sei tu?”
“ Di Milano.”
“ Davvero? Anch’ io.”
“ Io abito in Via Mario Pagano”
“ Io in Via Ludovico Ariosto! Siamo vicinissimi!”
“ Che forte!”
“ Mi chiamo Gianluca.”
“ Io sono Giulio. Che bello, siamo amici”.
Mi siedo e Gianluca mi tira per le gambe creando una pista compressa, tutta curve e controcurve, ricamando asole sulla sabbia umida.
Scelgo una biglia di Gimondi. Lui ne ha una di Motta.
E’ più forte Gimondi. Devo vincere anche per quello che è successo prima. Non l’ ho dimenticato.
Mi accorgo, con celato dispiacere, che Gianluca è molto bravo. Però mio padre Carlo, che viene per i fine settimana, ha fatto del suo meglio per insegnarmi.
Ci sfidiamo per quattro giri sotto il sole a picco. Siamo già molto abbronzati, per cui non c’è pericolo. Dopo sorpassi e controsorpassi, Gianluca, all’ ultima curva è in vantaggio. Allora io, mettendo nelle dita tutta la mia forza, riesco ad imprimere alla pallina una strana traiettoria. Questa percorre tutta una parabolica e, con mio grande stupore misto a gioia, taglia incredibilmente il traguardo.
Guardo mamma e le vorrei raccontare della mia impresa ma lei sta parlando fitto fitto con Anna. A volte è meglio non disturbare i genitori.
Sembrano contente ed io ascolto la loro cantilena, fatta anche di parole che non capisco. Sono felice perché vedo mia mamma ridere.
Da allora sono diventato molto amico di Gianluca. Siamo inseparabili: ci troviamo al mattino e stiamo insieme tutto il giorno, escludendo dai nostri complici giochi tutti gli altri bambini. Odiamo soprattutto le bambine, che ci danno fastidio con quel loro fare insistente e petulante. Poi facciamo il bagno un’ infinità di volte al giorno. Nuotiamo con i braccioli, ma ci divertiamo un mondo a riempirci di schizzi.
Il fine settimana mio padre è arrivato in spiaggia ed ha conosciuto Anna. E’ alto e forte, con folti capelli scuri e, dai suoi occhi verdissimi e penetranti, sprigiona uno sguardo forte e deciso.
Quando conosce Anna mi sembra molto affascinato. Vedo mia mamma che gli lancia strane occhiate, ma lui non sembra curarsene.
Mio padre ed Anna sono andati avanti a parlare per tutta la domenica. Sorridevano e gesticolavano felici, come se tra loro si fosse creato una sorta di campo magnetico. Mia mamma, molto infastidita, riusciva a stento ad intervenire e, ancor meno, a prendere le redini del gioco.
Hanno continuato per tutti i fine settimana di agosto.
Finisce l’ estate: per me è stata stupenda.
“ Voglio che vi scambiate l’ indirizzo. Voglio vedere ancora Gianluca a Milano”, dico a mia mamma.
“ Va bene”, mi risponde lei con malcelato dispiacere.
“ Ci vedremo, ci vedremo sicuramente.”
“ Altro che”, mi risponde lui.
Da allora io e Gianluca abbiamo giocato insieme, nei parchi di Milano, un’ infinità di volte.
Anche mio padre, mia mamma ed Anna (che poi avevo saputo si era separata da poco) si sono visti un po’ di volte. A volte sentivo i miei litigare. Mia madre diceva in continuazione che non si dovevano più vedere.
Quando li ascoltavo di nascosto non capivo il perché e con un groppo alla gola, pensando a Gianluca, mi mettevo a piangere a dirotto. Quando poi loro si accorgevano che li avevo sentiti discutere, lasciavano perdere comprendendo che io, con tutti quei dissidi famigliari, mi chiudevo in me stesso e stavo malissimo.
Ignaro delle conseguenze che avrebbe portato nelle nostre vite quell’ incontro io, ancora bambino innocente, tra me e me ripetevo
sempre e solo: “ Che bello, finalmente ho trovato un amico vero”.
L’ estate successiva prendiamo una barca
L’ estate successiva prendiamo una barca a motore, piccola ma carina. Mio padre mi dice che è una pilotina, un modello molto ambito e diffuso in quegli anni.
Ci troviamo a Vada, un paesino non distante da Castiglioncello, dove abbiamo preso una casa in affitto.
Gianluca, a Milano, mi dice sempre che sua mamma si prende tutti gli anni le ferie in agosto, quando la ditta dove lavora chiude per un mese. Da allora, non riesco a capire perché, mia mamma in quel periodo si è iscritta a un corso di yoga. Dice che le fa bene allo spirito, che è stressata dalla vita di Milano e, perciò, ne va della sua salute mentale.
Mio padre è molto contrariato ed io anche. Vorrei tanto giocare con Gianluca al mare.
Solo negli anni mi sono reso conto di quanto mia madre soffrisse nel ricorrere a quel piccolo sotterfugio e quanto ci stesse male anche per me. I rapporti tra lei ed Anna, poi, si erano logorati non solo nell’ apparenza ma anche nella sostanza. Mia mamma, infatti, se poteva evitare che i due si vedessero durante l’ estate, non poteva fare altrettanto quando si trovava a Milano.
A me, crescendo, è apparsa sempre più nitida la fitta trama del loro amore proibito; non mancavano anche di venirmi all’ orecchio notizie raccolte da conoscenti comuni dei loro incontri segreti.
Mi vergognavo di mio padre, mi sentivo tradito.
Andiamo in vacanza in luglio e giriamo con la pilotina in un clima di silenzio irreale, cullati solo dal rollio del motore e dallo sciabordio delle onde create dal motoscafo, che si aprono poi in una scia della quale non scorgo la fine.
E’ mia mamma, che non vuole fare le vacanze in altri posti se non in Toscana, ad indicare la rotta. Mio padre sembra assai contrariato ma, per ovvii motivi, non può dire niente. E’ prigioniero di tutta questa situazione, voluta da mia madre ma creata da lui stesso. Io ho semplicemente il ruolo di vittima. Subisco il tutto senza capacitarmi di cosa stia succedendo.
Mi viene da piangere perché soffro nel sentire i miei genitori così freddi tra loro ma, allo stesso tempo, non posso lamentarmi di nulla di reale.
Passiamo praticamente due estati a vaporizzare nafta, correndo tra l’ Elba, la Capraia e Montecristo. Il tutto con qualche veloce puntata in Corsica.
Corse folli tra le onde, frangendo i flutti in cerca di un perché alla propria vita; scorribande tristi tra un’ oasi di quiete e l’ altra: ho osservato una volta il fondo limpido alla Capraia desiderando finirci dentro per poi essere soffocato dai marosi, ho ammirato un banco di delfini all’ Elba e mi sono immaginato che, ricadendo, danneggiassero irreparabilmente la barca, ho visto avvicinarsi velocemente le scogliere di Montecristo e ho sperato tanto che non ci fermassimo e ci sbattessimo contro.
Non ho mai sofferto tanto in vita mia…
Adesso ho sette anni e sono di nuovo al mare in Toscana, questa volta solo con mia madre. Mio padre è rimasto a casa: ha detto che deve lavorare. Quando siamo partiti, quasi non si sono neanche salutati.
Continuo a star male (mia mamma, poverina, lo capisce bene ma non sa che fare) però, almeno, sono contento di non andare più in barca.
Mi devo assolutamente trovare qualche nuovo amico e mia mamma, per agevolarmi, mi porta in un bagno privato, i bagni “ La Barcaccina.”
Lì speriamo entrambi che ci siano tanti ragazzini e, magari, qualche attività che possa favorire la socializzazione.
Il primo giorno mi metto subito a parlare con due ragazzi di un paio d’ anni più grandi di me: Mario, di Livorno e Fabrizio, di Firenze.
Sono molto simpatici, mi accolgono nella loro ristretta cerchia e, per il mio aspetto, mi danno il soprannome di “ faccia d’ angelo”.
Non è più come quand’ ero alle spiagge bianche con Gianluca: ora c’ interessano anche le bambine e, guidato dai miei compagni più grandi, comincio a vederle sotto un’ altra luce. Mi sento attratto e qualche volta cerco invano di parlare con qualcuna di loro. Spesso mi ritrovo a fantasticare baci mozzafiato, allo stesso modo che avevo osservato a casa soprattutto nei telefilm americani.
Adoro pescare e, dopo essere stati qualche volta in mare con il vecchio Attilio, la faccia piccola e rugosa rovinata dal sale e dalle intemperie, io e Mario decidiamo di calare una rete a circa quaranta metri da riva, ripromettendoci di andarla a salpare non prima del mattino successivo.
Io alla sera non ce la faccio più dalla curiosità. Non voglio salpare la rete ma solo vedere se sia rimasto imprigionato qualche scorfano o qualche muggine. Allora mi avvicino lentamente a uno dei due galleggianti segnaletici, a fatica riesco ad issare la corda sulla mia piccolissima barca e, proprio mentre sono su un tratto di fondale sabbioso, scorgo una grossa triglia imprigionata e ancora boccheggiante.
Non l’ avessi mai fatto: mentre sono impegnato a far scorrere la rete, vedo un’ altra barca a remi che s’ avvicina.
“ Che stai facendo, faccia d’ angelo? Avevamo promesso di andare solo domani mattina. Per me sei venuto a fregarti i pesci.”
Io, rosso dalla vergogna rispondo: “ No! Volevo solo guardare e basta.”
“ Non ci credo”, dice Mario fuori di sé. “ Sei un imbroglione, non ti voglio più vedere.”
Ripensando a quanto sia stato leggero a farmi trascinare da una cosa tanto futile, ora non faccio altro che pensare tra me: “ Che stupido sono, così ho perso un amico”.
Mi sono ritrovato solo con Fabrizio che, tra l’ altro, non mi trattava più come prima. Aveva saputo della storia della rete e si era allontanato un po’ da me. Cercavo di riconquistare la sua amicizia facendogli un mucchio di scherzi, che lui non sembrava gradire più di tanto. Dopo un po’ di tempo passato a scherzare con le ragazze, un giorno Fabrizio mi dice: “ Dai, viso d’ angelo, torniamo amici.”
Ci mettiamo a parlare fitto fitto di bimbe, automobili ed anche di Mario. Allora Fabrizio mi dice: “ Sai, alla fin fine non m’ importa del fatto che avete litigato: sono affari vostri.”
Io, rinfrancato ed incoraggiato da quella conversazione, mi metto nuovamente a scherzare: faccio finta di frustarlo con un rametto leggero e, inavvertitamente, lo colpisco. Lui allora, all’ improvviso sferra un pugno fortissimo che mi lascia completamente rintontito.
Anche questa volta rimango paralizzato e con una sensazione di tremenda impotenza.
Torno a casa e alla sera sento mia mamma parlare a tavola di quel che è successo con il suo fratellino Simone, che era venuto in vacanza con noi.
Mio zio è un ragazzo alto e magrissimo, coi capelli scuri e due occhi marroni dai quali traspaiono scintille di brillante intelligenza.
Lei gli dice che dovrei imparare a difendermi e a farmi rispettare ma lui, al termine di una breve discussione dai toni pacati, la convince che, in fondo, sono solo un bambino di sette anni ed avrò tempo per queste cose.
Io ascolto dalla camera adiacente, senza farmi accorgere. Mi sento impazzire.
Non mi interessa aver perso un finto amico come Fabrizio.
Ora un unico pensiero mi pervade la mente. “ Un giorno, sì, un giorno riuscirò a vendicarmi.”
Le visioni si dissolvono
Le visioni si dissolvono, fluire senza ricordi e senza nomi, in cristalli dalla luce azzurro- chiara. Mi sento proiettato in un vortice ed è come se guardassi attraverso un vecchio caleidoscopio, dove gli oggetti girano veloci, tanto che io faccio fatica a seguirli con gli occhi.
Mi sento come sbalzato in avanti in una nuova dimensione temporale.
Ho otto anni e sono le cinque del mattino. Mio nonno materno Gino viene a svegliarmi dolcemente, portandomi un po’ di caffè fumante. Mi guarda con amore infinito, come se io fossi una delle cose più belle capitate nella sua lunga vita.
“ Allora, sei pronto? Dai, vestiti.”
“ Certo, non vedo l’ ora di andare a catturare qualche bella anguilla.”
“ Andiamo a fare colazione. Poi, prima di uscire ricordati di mettere lo spray: sai che è pieno di zanzare là, al fiume”
Mio nonno è sempre premuroso e pieno di attenzioni.
E’ alto ma un po’ curvo, il naso sporgente tra due occhi forti e lucidi, i radi capelli bianchi. Di professione fa il rappresentante e -mi racconta spesso- ha acquistato coraggio grazie alla sua professione: entra subito in confidenza con le persone conosciute da poco e, grazie all’ eloquio fluente ed anche alla sua ricchezza d’ animo, si fa dappertutto un sacco di amici.
Usciamo e passiamo davanti all’ edicola del paese. Io guardo un giornale e leggo: “… processato in contumacia…”. Allora gli chiedo cosa vuol dire.
“ Significa che non era presente”, mi risponde. Poi aggiunge con dolcezza: “ Sai, Giulio, mi dà una gioia infinita poterti spiegare qualcosa che non sai…”
Il nonno è sempre stato così…
Sono le sei e mezza e siamo in riva ad un corso d’ acqua salata vicino alle spiagge di Vada.
La mattina è tersa: spira già, infatti, una brezza leggera che smuove dolcemente i fili d’ erba ancor carichi di rugiada. A levante il sole sta facendo capolino tra le nubi rossastre e presto ci donerà un dolce tepore.
Disponiamo cinque canne parallele con la lenza munita di galleggiante, calibrato in modo che l’ esca sia rasente al fondo. Poi, il nonno esegue un lancio perfetto con una canna col mulinello. Questa lenza termina con un pesante piombo sopra il quale penzola un bracciolo corto che finisce con un grosso amo. In cima a questa canna è collocato un campanellino che per via delle vibrazioni trasmesse dalla preda che sta abboccando, funge da utile segnalatore. Tutti gli ami sono coperti da vermi singoli o a ciuffo: è questa, infatti, l’ esca principe per le anguille.
Mi diverto un sacco a far suonare ogni tanto il campanellino dando un calcetto alla base della canna. Il nonno ci casca sempre ed ogni volta, immancabilmente, mi sgrida con fare bonario, provocando in me un istintivo moto di simpatia.
Sembra una mattina come le altre ma alle nove e mezza, quando d’ abitudine avremmo preso cinque o sei anguille, non c’è ancora stata neanche un’ abboccata. Io continuo a guardare ipnotizzato i galleggianti attendendo e curando il minimo movimento. Nella canna col mulinello poi non ho alcuna fiducia: finora ci ha fruttato solo quattro catture, e nemmeno di taglia.
Alle undici non gliela faccio più e chiedo al nonno di andar via, quasi supplicandolo. Proprio in quel momento la canna col mulinello ha un fremito e il campanellino suona ripetutamente. Il nonno, ancora vittima della paura di venir preso in giro, mi guarda e, con sorpresa, nota che sono lontano. Allora si precipita a prendere in mano la canna che si sta incurvando e con maestria, per far sì che il pesce non subodori l’ insidia, accompagna l’ abboccata movendo verso il basso la canna. Poi, proprio al momento giusto, tira con un breve scatto deciso e ferra la preda
Il nonno s’ accorge subito che è qualcosa di grosso dato che non riesce a far compiere nemmeno mezzo giro al suo mulinello. Allora cede filo piano, rovinandosi per l’ attrito tutte le mani che, ora, stanno cominciando a sanguinare abbondantemente
Il nonno recupera e cede filo, con una lotta estenuante in cui l’ anguilla punta spesso il fondo alla ricerca disperata di qualche sasso dove potersi attaccare e sfuggire alla morte certa. Lui lo sa e perciò alza spesso la punta della canna spasmodicamente incurvata al punto tale che, ancor oggi, non riesco a capire come abbia fatto a non rompersi.
Sicuro della tenuta del filo e sentendo l’ animale ormai stanco (sarà passato un quarto d’ ora) il nonno esausto trascina l’ anguilla a riva. Mentre la sta per issare, questa ha la forza di dare l’ ultimo colpo di reni e di puntare il fondo. Ce l’ aspettavamo. Il nonno gestisce con maestria anche questa situazione: oppone una certa resistenza, lascia sfogare l’ animale e poi recupera con decisione.
Vedo l’ anguilla sulla riva e non credo ai miei occhi. Sarà lunga un metro, con un diametro spaventosamente enorme e peserà almeno cinque chili.
Continua ad agitarsi e il nonno la deve trascinare oltre l’ argine, in un posto al sicuro. Dopo avermi ordinato di prendere un sacchetto, mi urla di raggiungerlo. Vedo il nonno che, esausto e tutto sporco di sangue, riesce a fatica ad introdurre l’ animale ancora guizzante nella capiente busta che gli ho passato. Con mio grande stupore, una volta finita la battaglia, l’ anguilla è diventata immobile e rassegnata al suo destino.
Poi ho abbracciato il nonno con un misto di gioia e di ammirazione.
Non mi sono mai divertito tanto in vita mia.
Ho bisogno di continuare a vedere…
Ho bisogno di continuare a vedere…
Ho quasi dieci anni e sto andando al Parco Sempione a giocare.
Anche se non mi fa certo piacere esser accompagnato da mio padre (immagino perché lo faccia), sono lo stesso contento perché so che vedrò Gianluca. E’ circa un anno che non ci vediamo.
Io voglio solo giocare a pallone. Non sono tanto capace però mi piace molto, soprattutto quando riesco a fare gol.
Mi viene in mente un episodio risalente a qualche anno fa.
Vado allo stadio con mio padre a vedere una partita. I biglietti glieli regala il Milan, del quale lui è un collaboratore.
Gioca Rivera e vinciamo con un gran gol di Bigon. Mio padre mi dice che è un grande giocatore, molto forte di testa. Quando il Milan segna si mettono ad urlare tutti.
Ho paura che siano arrabbiati. Invece no, gridano di gioia, sono contenti. Mi fa impressione vedere tutta quella gente, le bandiere, i cori di incitamento e poi di ringraziamento del pubblico ai giocatori: tutti sono come impazziti. Addirittura vedo ancor adesso, attraverso quell’ immagine nitida, i caroselli delle macchine clacsonanti intorno allo stadio con gli automobilisti che si sporgono dall’ abitacolo ed urlano all’ unisono con un ruggito: “ Milan, Milan…”
Mi distolgo dai miei ricordi quando penso che ho voglia di vedere Gianluca, l’ amico del cuore, e poi tutti gli altri con cui gioco a calcio. Mi guardo in giro e, dopo un po’, riesco a intravedere Anna.
E’ ancora bellissima: mi ricorda molto le hostess che ho visto l’ estate scorsa, quando siamo andati alle Maldive con alcuni amici. Vicino a lei scorgo Gianluca: adesso è molto più basso di me e un po’ tarchiato, con la faccia un po’ rotonda e le gote arrossate che ispirano grande simpatia.
Lo saluto da lontano e lui mi corre incontro felice. Mio padre guarda Anna con finto distacco e, quando ce ne andiamo a giocare, saluto i due che stanno già dialogando con un’ enfasi ed un trasporto tale il cui significato è palese anche ai miei occhi di bambino.
M’ avvio al campo camminando forte per la tensione e parlando fitto con Gianluca quando, con la coda dell’ occhio, vedo i nostri genitori sempre più vicini. Allora mi viene in mente quella volta che ho guardato distratto e un po’ annoiato “ Il gigante” col nonno Gino ed ero rimasto colpito solo da quella scena in cui Elizabeth Taylor e Rock Hudson stanno fermi a scambiarsi uno sguardo che parla da solo e racconta di quanto sia grande e intenso il loro amore.
Vedo la stessa cosa tra mio padre ed Anna.
Rimango profondamente turbato.
Riprendo a camminare col viso rosso dalla vergogna mentre Gianluca parla e parla, ma io non sento nulla.
Cammino con la testa semigirata, lo sguardo rivolto all’ indietro. Quando vedo Anna accarezzare mio padre mi sento mancare. Immaginavo già tutto ma questo, con me a dieci metri di distanza, è troppo.
Penso di raccontare tutto a mia mamma.
Dico a Gianluca che voglio tornare a casa e lui mi guarda stupito. Bofonchio qualcosa, senza riuscire ad articolare parole di senso compiuto.
Gianluca mi chiede se sto bene e mi dice che per quel giorno è stata organizzata una partita con dei ragazzi fortissimi. La voglia di vendicarmi e di riuscire a sfogare tutta la mia rabbia prevalgono sull’ istinto di fuga.
Una volta arrivati al prato prescelto, constatiamo con amarezza che, oltre alle solite facce a me note ci sono solo dei ragazzi di strada, dei poveracci conciati in un modo indecente. Quando stiamo per andare via mestamente, quello che sosteneva a gran voce di essere il “ capoccia” s’ avvicina e mi dice: “ Vi vogliamo sfidare, vi facciamo vedere noi chi siamo. Scommettiamo cinquecento lire?”
“ Va bene”, gli rispondo colpito nell’ orgoglio. “ Terrò io il tempo. Va bene mezz’ ora?”
“ D’ accordo”, fa eco il “ capoccia”
“ Cominciamo.”
La partita inizia lenta, nessuno vuole affondare il colpo. Ad un certo punto, Gianluca mi serve in profondità ed io mi accorgo di avere davanti solo uno di loro. Faccio finta di andare a sinistra, poi mi porto la palla sul destro, il mio preferito. Con un’ abilità che non sapevo di possedere, mi creo lo spazio giusto, armo il tiro e poi calcio.
Mi stupisco di me stesso quando la palla passa radente alla borsa che funge da palo. Io e Gianluca ci abbracciamo ed urliamo verso il “ capoccia” tutta la nostra gioia. Lui, contrariato e deluso, va verso il centro e ci intima di sbrigarci.
Poi loro attaccano e attaccano ma il tempo passa. Non gliela faccio più a forza di correre dietro a tutti e continuo a guardare l’ orologio.
Mancano pochi secondi.
Il “ capoccia” s’ impossessa di una palla vagante e s’ invola verso la nostra porta, correndo tanto forte che sembra deciso a risolvere la questione da solo. La palla ondeggia da un piede all’ altro ed io, aspettandolo e guardandolo in faccia, colgo in lui il massimo sforzo di concentrazione.
E’ vicino il gol del pareggio.
Lo blocco entrando in disperata scivolata, colpendo gambe e pallone. Poi gli dico: “ Adesso è finito il tempo. Paga!”
Lui si rialza e mi urla rabbioso: “ Me le dai tu le cinquecento lire, altrimenti ti uccido. Hai capito, cocco?”
Mi ripassa per la mente l’ immagine di mio padre con Anna e non ci vedo più. Comincio a colpirlo con pugni e calci, facendogli sgorgare il sangue dal naso e dallo zigomo sinistro. Poi vedo tutt’ intorno a noi i miei e i suoi compagni che ci incitano, mi sento il sangue salire al cervello e lo colpisco con quanta più forza abbia in corpo.
Il “ capoccia” stramazza a terra. Gianluca mi porta via.
Finalmente mi sono vendicato.
Torniamo trafelati dai nostri genitori e li sorprendiamo mentre si stanno tenendo la mano e si guardano in quel modo per me così irritante. Anche Gianluca li vede e rimane attonito.
Dico a mio padre: “ adesso andiamo via.”
Lui mi guarda come un bambino sorpreso con le mani nella marmellata e mi lancia uno sguardo colpevole. Io sento che è falso e, se solo ne fossi capace, farei a lui quello che ho fatto al “ capoccia”.
Mi limito a guardarlo di traverso: voglio riuscire a farlo sentire meschino qual’ è.
Senza muovere la bocca faccio un cenno amichevole di commiato a Gianluca e guardo Anna con un misto di dispiacere e di commiserazione.
Non ho mai più visto Anna in vita mia
Decido di andare a Milanello
Decido di andare a Milanello con il mio compagno delle elementari Luca, un ragazzino di undici anni alto e smilzo, coi capelli rossicci, una spruzzata di lentiggini sul viso pallido. Siamo nella sua casa di Carnago per un breve periodo di vacanza e perciò la nostra meta non è molto lontana.
Inforchiamo le biciclette e decidiamo di fare una piccola gara.
Mi viene in mente quella volta che io e Giovannino, un bimbo di bassissima statura e dai capelli slavati, siamo partiti da Vada andando verso Livorno per fare una gita. Dopo esserci rifocillati nel supermercato di Rosignano, ci siamo involati verso la nostra meta preferita, le spianate sopra Castiglioncello. E’ questa ancora una zona tranquilla, poco residenziale, con un mini- circuito che si snoda intorno ad un laghetto ombroso e privo di vita.
Arriviamo appaiati alla base della collina ma io so benissimo che, una volta imboccato lo stradone in salita, Giovannino scatterà all’ improvviso nel tentativo di distanziami. Ciò avviene puntualmente dopo una cinquantina di metri ma questa volta sono io ad avere più birra nelle gambe. Gli sto a ruota per qualche metro, poi esco dalla sua scia ed eseguo una progressione che in breve tempo lo stronca. Mi volto e scorgo la sua sagoma arrancante sempre più lontana. Giungo, con molto vantaggio al traguardo che si trova (così ci siamo accordati) tra due pini alla fine di un curvone che costeggia la sponda orientale del laghetto.
Mi sento felice e un refolo di vento mi culla nel pomeriggio limpido e assolato.
Anche stavolta ho vinto.
Io e Luca arriviamo al complesso sportivo quasi appaiati e molto trafelati.
Per questa volta, abbiamo deciso, nessuno dei due può fregiarsi del titolo di vincitore della nostra breve corsa. Poi cominciamo a discutere senza farci vedere.
Incomincio a pentirmi di essere andato fin lì. Realizzo, in un istante di tempo, quanto io sia stato stupido nel voler solo farmi bello con un amico. Allora dico: “ Ho paura che non ci facciano entrare.”
“ Ma dai, non hai detto che tuo padre lavora anche per il Milan?”
Mi sento preso tra due fuochi: da una parte c’è il sopito odio per mio padre, dall’ altra la tentazione di fare bella figura di fronte a un amico.
Mi mangio le mani per il fatto di essere venuto sin qui. Poi cedo al mio innato istinto di voler fare il protagonista a tutti i costi e dico: “ Sì, fa delle visite ai ragazzi che giocano negli Allievi a Linate e, ogni tanto, a qualche primavera. Poi riceve gente importante come Rivera o Franco Baresi: Ma nessuno conosce me…”
“ Digli che sei suo figlio. Prova, almeno”.
Mi accorgo che il custode ci sta osservando attraverso il cancello e, anticipandomi, ci rivolge la parola in modo non proprio gentile.
“ Forza, ragazzi, allontanatevi: qui non c’è nessuno da vedere.”
“ Ma io sono il figlio del dottor Bersani!”
“ Ah sì? Come si chiama di nome il dottore?”
“ Si chiama Carlo e io sono Giulio Bersani.”
“ Giulio! Ti ho visto quand’ eri piccolo e adesso non mi ricordavo più di te! Scusatemi, entrate.”
Entriamo nell’ androne di Milanello e subito scorgiamo delle facce note che ci guardano distrattamente. Noi sappiamo che i giocatori sono a una settimana dall’ esordio in campionato contro l’ Avellino e, perciò, non abbiamo nessuna intenzione di disturbare. Quando poi il custode ci dice che oggi è il loro giorno libero, ci sentiamo molto più sollevati.
All’ improvviso si para davanti a me un omone che parla con uno strano accento e, indicando una delle tante foto appese alle pareti, dice: “ Guarda se mi riconosci, qui.”
Non si vede nemmeno se il pallone sta entrando in porta ma io gli rispondo impaurito: “ E’ lei signore! Bellissimo gol, signore!”
Un'altra faccia nota mi guarda e dice: “ Ehi figliolo, non siamo mica nei marines!”
“ Barone, fa scappare i bambini!”, gli fa eco il barista
Sentendo pronunciare quel nomignolo, d’ improvviso realizzo: è Liedholm, il grande Nils Liedholm”
“ Volete andare a giocare nei prati?”, dice poi con una dolcezza disarmante.
Noi non troviamo la forza di rispondere ma, ansiosi di poter imparare qualcosa da quei grandi campioni, annuiamo contenti.
Arrivati sui campi di calcio, notiamo con dispiacere che non c’è quasi nessuno.
Allora il custode gentile che ci accompagna ci indica in lontananza un gruppetto e dice. “ Guardate, là ci sono Bigon coi suoi due figli e Maldera. Provate a raggiungerli e chiedetegli se hanno voglia di giocare con voi.”
Noi ci avviciniamo camminando lentamente su uno dei tanti campi di Milanello, dal manto erboso corto ed in perfetto stato. I due giocatori ci vedono e sento Bigon dire a quello che deve essere il suo figlio più grande: “ Guarda, Filippo, stanno arrivando due bò cia.”
Filippo viene verso di me e mi dice agitato: “ E voi due chi cavolo siete?” Io cerco di calmarlo e gli dico: “ Sono Giulio Bersani, il figlio del dottore, e questo è il mio amico Luca.”
Poi dico: “ Buongiorno signor Bigon, buongiorno signor Maldera….Possiamo giocare un po’?”
“ Vieni, Giulio”, mi dice Bigon come se mi conoscesse da una vita.
“ Vieni anche tu, Ste”, dice al suo figlio più piccolo, che avrà sei anni. “ Fai vedere come sai giocare.”
Maldera dice: “ Facciamo io e Alberto contro voi quattro. Vediamo se riuscite a prendere un pallone!”
Bigon con dei paletti compone due porte larghe un metro, ad una quindicina di metri di distanza l’ una dall’ altra.
Filippo, molto nervoso, mi dice: “ Non ho ancora capito chi diavolo sei ma mi raccomando, cerca di giocare bene che gliela devo far vedere a mio papà. Altrimenti me la prendo con te e il tuo amico.” Poi mi punta il dito in faccia, ricordandomi un po’ il “ capoccia”.
Interviene il piccolo Ste: “ Dai, Filippo, smettila. Tanto chi vince vince.”
Filippo lo guarda rabbioso e dice: “ Ehi, tu pensa solo a giocare!”
Incomincia una squallida partita in cui Bigon e Maldera quasi senza muoversi, tengono il pallone attaccato ai piedi, palleggiano sontuosamente e si scambiano al volo la palla. Spesso giochicchiano di testa in modo da non farci arrivare.
Dopo un po’ io e Luca, invece di correre da una parte all’ altra, ci mettiamo a trotterellare stando complici al loro gioco.
Ste è fermo in un angolino Filippo invece si danna l’ anima e corre furiosamente, oscillando tra suo padre e Maldera.
Né Bigon né il suo compagno di squadra ci vogliono far gol. Dopo un po’ Filippo ne approfitta e dice: “ Va bene, stop! Evviva, abbiamo pareggiato: zero a zero.”
Bigon e Maldera muoiono dalle risate.
E’ stata proprio una bella esperienza: ho avuto modo di giocare con due campioni ed ho conosciuto due ragazzini davvero simpatici. In più, il grande Niels Liedholm ha parlato con me.
Sì, è stata una giornata divertente ed io ho a lungo pensato a Filippo come un modello da seguire per la sua facciata da duro, l’ indole ribelle, la tenacia e l’ orgoglio dimostrati.
Caratteristiche, quelle, che saranno poi parte integrante di tutta la mia vita, perché già affiora in me l’ esigenza di sentirmi grande e libero da costrizioni…
Non mi sento più un bambino
Non mi sento più un bambino.
Sto frequentando la prima media presso l’ istituto Leone XIII e il mio dodicesimo compleanno si sta avvicinando.
E’ marzo ed oramai stiamo uscendo dall’ inverno, che è stato molto rigido. Le rare spruzzate di neve che coprivano leggermente Milano fino al mese scoro si sono dissolte nel brusco passaggio ad una primavera precocemente mite. I campi stanno già fiorendo e le piante cominciano a buttare qualche germoglio.
Anche le ragazze si sono risvegliate dal torpore dell’ inverno e qualche coraggiosa è già in abiti succinti, cosa che provoca in me un rimescolio di sentimenti.
Vado a mangiare da nonno Gino e nonna Pia, una donna minuta, col volto scavato dall’ età ma ancora di bell’ aspetto. Ha strani capelli, un po’ bianchi e un po’ rossicci sempre arruffati; gli occhi sono tali e quali quelli di mia mamma mentre il naso è un po’ pronunciato e somiglia a quello di Laura.
La nonna ha imbandito un ottimo banchetto: mi dice che per me ha preparato quel che le riesce meglio e, per non farmi pensare troppo a mia madre, ha preparato anche, in via del tutto eccezionale la sua specialissima zuppa inglese.
Mi getto a capofitto sulle lasagne, preparate con pasta fatta in casa.
Sono molto buone: al dente ma allo stesso tempo tenere e condite con una massiccia dose di ragù. Di secondo mi porta del vitel tonnato friabile e saporitissimo, con la giusta quantità di capperi e la salsa fatta con le sue mani d’ oro.
Dopo avermi deliziato col dolce, mi elargisce anche due dita di caffè preparato dal nonno con il suo speciale metodo: mi dice sempre, infatti, che il segreto è non pressare troppo e, soprattutto, forare il filtro, per mezzo di uno stuzzicadenti, con tre buchi che formino un triangolo equilatero. Solo così, sostiene lui, si fa il buon caffè. Alla fine mi son sentito oberato di cibo e soddisfatto.
Finita la cena io e il nonno ci sediamo di fronte alla televisione per vedere un episodio di “ Colombo”. Nonno Gino è affascinato dal modo di condurre le indagini del tenente: sembra incollato al televisore.
In quell’ episodio è narrata la classica storia di un uomo ricco ed intelligente che uccide la moglie per scappare con l’ amante. Sin dall’ inizio è chiaro quale sia il colpevole. Colombo, però, deve trovare delle prove che suffraghino i suoi sospetti. Non è facile con un uomo arguto come quello, ma il tenente incomincia a tessere la fitta tela delle sue apparentemente inutili domande e, mettendo sotto pressione l’ indiziato, lo fa cadere con un astuto tranello: prima mette alle strette l’ amante e la fa confessare, poi simula la morte di questa. Il ricco uomo d’ affari, visti svanire i suoi progetti amorosi, si mette a piangere come un bambino e praticamente si autoaccusa.
E’ davvero una serie televisiva molto avvincente e il nonno ogni tre scene ha l’ abitudine di ripetere: “ Guarda, adesso sta per andarsene e… adesso torna indietro a fargli un'altra domanda.”
Questo particolare non lo dimenticherò mai.
Non ho voglia di andare a casa a dormire. Allora mia nonna telefona a mia madre e lei, dopo una certa riluttanza, dice che non c’è problema, dato che domani è sabato e non devo andare a scuola.
Guardiamo tutti, stancamente, ancora un po’ di televisione in soggiorno. Poi mia nonna mi prepara il divano letto con lenzuola freschissime che emanano un piacevole odore i pulito. I nonni, che sono abituati ad andare a letto presto, a quel punto mi salutano affettuosamente, riempiendomi di baci.
Spengo la luce e mentre sto per scivolare tra le braccia di Morfeo, sento la voce di Luca che mi sussurra, come aveva con malizia accennato una volta: “ Sai, verso mezzanotte, su qualche rete privata, trasmettono dei film in cui si vedono le donne nude…” Allora io accendo la lampadina che c’è sulla mensola della sala e, preso da istinti ancestrali, sfoglio una rivista di programmi televisivi e, con mia grande gioia, leggo che a mezzanotte esatta c’è in programma un film dal titolo “ Ondate di piacere”, proprio su un canale privato che nella nostra televisione si vede molto bene.
Sono le dieci. Ho molto sonno e i nonni sono già a letto. Allora vado a vedere se è avanzato un po’ dell’ ottimo caffe’ che ha fatto il nonno. La luce della loro camera è già spenta ma io entro lo stesso in cucina con circospezione, mi avvicino alla caffettiera ancora sui fornelli e noto con piacere che è abbastanza pesante. Cercando di non far rumore mi verso un tazza colma, la ripongo sul lavandino cercando di fare il meno rumore possibile e bevo. Tutto procedendo a tentoni e a memoria nel buio. Poi torno dritto filato in soggiorno e mi metto sotto le coperte.
Il sonno, più per l’ ansia dell’ attesa che per il caffè, è