Non c’è un motivo preciso per cui vengono scritte le storie di varia umanità o, per meglio dire, chi le scrive raramente conosce la ragione profonda che spinge un individuo ad annotare in vario modo i propri pensieri, tutti quelli che affiorano più o meno spontanei alla soglia della coscienza.
Ho appena mentito. Sono anni che mi pungola, senza tregua, il desiderio smanioso di strappare al buco nero della dimenticanza la mia infanzia e con essa la gioventù dei miei cari e l’ esistenza dei miei morti, perché l’ unica vera tomba è quella della memoria addormentata.
Il segreto della vita e della morte sta tutto qui. Qualcuno si rifiuta di dimenticare e scrive un libro. Poi qualcun altro, dopo averlo letto sino in fondo, decide di aggiungere nuovi capitoli. Insomma, da questo incessante lavorio, nasce un libro da lasciare aperto e non concluso, con tanti altri fogli bianchi da vergare e una penna carica di inchiostro.
Mi assalgono i ricordi e nizio a scrivere. Vedo la mia vita che scorre su uno schermo bianco. Non c’è bisogno di pensare. Le parole prendono corpo come per magia sul foglio ancora bianco...
"La mia casa in Centrale dominava il Villaggio. Dal terrazzo, alzandomi sulla punta dei mei piedi di bambina, fino a sormontarne con gli occhi il parapetto, potevo abbracciare con lo sguardo tutta la vallata.
Giù in fondo, al di là delle palazzine più basse, seminascosto tra il verde, si intravedeva il largo tetto rossastro della Sala macchine, il cuore della Centrale idroelettrica dove lavorava mio padre.
Il campanile della chiesetta del Villaggio, invece, sembrava piantato sulla montagna che si ergeva sullo sfondo, se con il palmo della manonascondevo la sua parte più bassa.
Mio padre mi aveva insegnato a sparare i piombini col fucile ad aria compressa sul corpo bronzeo della piccola campana.Mi pare di sentire, ora come allora, il suono metallico del colpo che centrava il bersaglio e la voce ben nota del mio maestro che mi esprimeva la sua soddisfazione.
Adesso mio padre, che ha più di ottant’ anni, magro come un osso, trascorre la giornata nel nostro grande garage , bazzicando intorno ai modellini dei suoi aerei, costruiti pezzo per pezzo, con cura maniacale e poi lanciati in aria grazie a motori e miscele che lui solo conosce, spesso fracassati in atterraggi spericolati e rimessi di nuovo insieme con l’ inesauribile alchimia del suo genio.
L’ ultima volta che l’ ho visto mi ha detto, quasi timidamente "Ho speso cento euro per un motore! Sono proprio pazzo!". Per quest’ unico hobby che si concede, cerca di spendere il minimo indispensabile, per nonl gravare sul bilancio familiare. Ma non sa proprio farne a meno.
Li costruisce da sé, senza servirsi dei modellini prefabbricati, e li dipinge con colori sfavillanti, siglandoli col suo nome, perfetti come fossero usciti da una fabbrica. Poi li carica nel bagagliaio posteriore della macchina, con la cassetta degli attrezzi e va in un campo appena rasato, fuori dal paese, dove li fa alzare in volo, facendoli sfrecciare nel cielo e roteare in folli evoluzioni, in looping e voli rovesciati. Alla fine del volo li riporta a terra, miracolosamente, ogni volta, con atterraggi improbabili, su strisce di prato che fungono da pista, scovate nelle campagne del venafrano.
Talvolta l’ atterraggio non riesce e il piccolo bolide scintillante va a fracassarsi tra i cespugli e l’ erba alta. Ma lui non si perde d’ animo e iniziano le ricerche: ogni pezzo, anche il minimo frammento, viene raccolto e riportato a casa, dove la forza del Super Attak e la genialità del mio vecchio compiono il miracolo. Un po’ di miscela e si riparte.
Intanto mia madre lamenta della propria solitudine, con quell’ uomo amato più di ogni cosa al mondo ("Fatta eccezione per voi figlie!", tiene a precisare), che ora parla poco e resta tutto il giorno nel suo laboratorio.
E noi, le sue figlie così lontane! Magari si potesse stare insieme un po’ di più, adesso che la vita, ormai trascorsa anche la nostra gioventù, ci ha avvicinate tanto che lei non deve più spiegare quel che ha dentro, come madre. Adesso è tutto chiaro anche per noi.
Quando scendeva nel giardino, su in Centrale, era talmente bella che se ne sarebbe potuto fare un quadro. Il sorriso, gli occhi lucenti, quei capelli neri che ancora oggi stentano a imbiancare e restano appena striati di fili argentei.
Chiama ogni sera al telefono, verso le sei. Ci parliamo per abbreviare le distanze, dicendoci qualche bugia bianca, quelle a fin di bene.
"Voi come state? A noi tutto a posto". E forse, troppo spesso, non è la verità.
Ma ha già sofferto tanto e ormai anch’ io so quello che si prova, se un figlio ti dice che sta male dentro e tu non puoi dargli la felicità. Si può dare la vita, ma non la felicità.
Lei e mio padre si conobbero che la guerra era finita da poco.
Nonno Sante, romagnolo energico e severo, un uomo tutto d’ un pezzo ma col cuore tenero chiuso ermeticamente nella corazza d’ autorità che gli proveniva da una famiglia rigidamente matriarcale, avrebbe potuto, forse, evitargli la dura gavetta della carriola in Centrale. Ma non lo fece. Bisognava che capisse bene quanto può essere dura la vita, in modo da apprezzare meglio, quando fossero arrivate, le soddisfazioni del progresso.
Di ottima famiglia, Capo guardafili nell’ E. A. V., molto stimato dai suoi compaesani, anche per le sue discrete risorse finanziarie, dominava come un signorotto d’ altri tempi sul piccolo paese e sulla famiglia, nella sua casa rossa di Roccaravindola.
Mentre scrivo, siedo sulla piccola sedia fabbricata in Estonia, che con le altre cinque faceva bella mostra di sé nella sala da pranzo di nonna Angelina, coperta da un cuscino ricamato a mano.
Da bambina scendevo al piano terra della grande casa e con cauteloso riserbo entravo nella stanza che più di ogni altra affascinava la mia sensibilità infantile.
Una penombra perenne conferiva all’ ambiente l’ atmosfera magica che la memoria mi rimanda esatta come allora: le tende color ocra pendevano dagli anelli di legno, smorzando la luce già tenue che filtrava dalle persiane accostate.
Il piano a muro, con la piccola nave costruita da mio padre e la foto di zio Pio, le due credenze, piene di ninnoli, tazzine cesellate e bicchieri da rosolio, i due grandi quadri alle pareti con il satiro paffuto incoronato di fiori e la natura morta.
Entravo in punta di piedi e rimanevo là, ad osservare il tutto, pensando quanto sarei stata fortunata se quelle cose meravigliose fossero diventate mie, un giorno.
Adesso le sedie sono qui, il resto del mobilio è riposto alla meglio nella mansarda della villetta dei miei genitori. E io non so che farne. Forse domani uno dei miei figli vorrà restaurare quei vecchi mobili e sistemarli in bella mostra nella sua casa .
Li ho tanto amati, faticosamente sottratti alla bramosa cupidigia dei miei cugini toscani e non ho potuto goderne, per mancanza di spazio, fatta eccezione per queste sedie e per la colonnina portafiori con qualche tarlo antico, che nonna mi regalò molto prima di morire.
Ma i loro pregi si mostrano forse solo ai miei occhi, perché li ho arricchiti coi ricordi e diventano tanto più preziosi quanto più passano gli anni. Ciò che rovina il tempo, va restaurando infaticabilmente il cuore."
Involontariamente ho svelato il perché si scrivono le storie di varia umanità e chi le scrive inconsciamente sa bene che questo è l’ unico modo per sopravvivere alla morte nel ricordo di chi le leggerà.