Sogno rigirandomi fra le lenzuola. C’è un caldo eccessivo, mi sveglio. Sono di nuovo sudato e devo cambiare le coperte.
“Forse lo farò stasera”; un raggio giallo entra nel buio nero e si perde nel celeste dei miei occhi. Suona la sveglia: “DRINNNNNNN!!!!” Sono le 7 in punto. Mi alzo e fa freddo per il mio corpo madido, barcollo nell’oscurità a piedi nudi e la raggiungo; la spengo così lei può dormire. Vado in bagno, urino e ho in bocca il sapore amaro dell’ultima sigaretta del giorno prima. “Ma quanto diavolo ho mangiato ieri?”
Sto ingrassando. Nell’anonima cucina mi nutro di nuovo: caffè, spremuta, biscotti le cui fragranze volteggiano nell’aria. E mi ricordo che da bambino mi piaceva di più la marmellata e detestavo le merendine. Salgo di sopra e sono ancora in bagno. “Oggi andrò da mia zia.” “E’ tanto tempo che non telefono a Marco.” “Come finiva quel film?” Pensieri, soltanto pensieri. Intanto fumo buttato in un angolo.
Mi piace stare qui. Una coltre densa invade lentamente la stanza. Apro la finestra e un calabrone entra prepotentemente. “ZZZZZZZZZ” -fa quello ronzando senza posa. Però non gli bado, mi rado e mi lavo il viso. Il rumore dello spazzolino elettrico squarcia il silenzio mattutino “DRRRRRRRRRRR” sembra una mitragliatrice! “Che strage la Prima guerra mondiale.”
In un'altra stanza mi vesto. Mi accoglie il disordine e sul pianoforte scuro trovo Silvestro che mi aspetta. Mi fa le fusa. “Vorrei un gatto tutto mio.” La camicia blu? No, il maglione rosa, neanche.
“La Roma ha perso 7 a 1 che tragedia!”
I pantaloni a righe non mi piacciono e neanche i jeans.
“L’anno scorso di questi tempi eravamo in Andalusia. Dio quanto ci siamo divertiti.”
Ma lei continua a dormire. Le scarpe, dove ho messo le mie scarpe marroni? Mi addobbo alla rinfusa e mi pettino nel grande specchio. Pettine, spazzola, acqua ma i capelli restano crespi e disordinati. Comunque ci riprovo: pettine, spazzola, grattatina sulla testa e acqua. Va meglio e assomiglio almeno a un porcospino.
Mi guardo. “Una volta ero muscoloso.” Ora no.
“Farò un po’ di pesi perché l’estate è imminente.” Intanto la vita fugge inesorabile.
“Dovrei smettere di fumare.” Da domani of course, da domani. Cerco la mia borsa; dove sarà?
La trovo sotto il letto. Sono pronto.
“Ciao Silvestro, ciao Amore.”. Ed esco di casa. Piove a dirotto, non ho l’ombrello.
Attraverso il giardino di corsa. “TIN, TIN, TIN, TIN” fanno le gocce che colpiscono i miei capelli unti.
“Come faranno a vivere in Siberia?”
Apro il cancello e sono fuori. Una folata improvvisa di vento mi scompiglia la testa. Peccato, tanta fatica sprecata per nulla e torno peggio di un porcospino.
Ora assomiglio piuttosto a un triceratopo, ma molto più smilzo. Metto in moto.
La strada è stretta e tortuosa. “TIN, TIN, TIN” continua a fare la pioggia sul vetro che ho davanti.
Un filo di ragno penzola alla mia destra; “Quando la pulirò?” “Che bello se fossi stato un super eroe, sarei stato famoso!” “L’aspirapolvere in ogni caso dove l’ho messo?”
Nuvole si ammassano nel cielo color della pece. Piove. Un camion di colpo mi si pone davanti, freno. Va maledettamente piano, troppo piano. “Certo che la mia collega è proprio una rompi balle.” Sorpasso una casetta gialla, è molto bella ma ogni realtà intorno è grigia scura. Supero l’ostacolo. “PI PI PI PI PI” si inizia a sentire da qualche parte dentro la mia vecchia macchina. E il vetro elettrico si abbassa da solo “VRRRRRRRRRR”; ecco si è completamente aperto.
La pioggia entra, mi bagna. “Cambierò questa dannata auto ma quando?” In fondo sedici anni di vita non sono pochi, non lo sono neppure trentacinque.
Accendo la radio, la spengo. Ho bisogno di silenzio, guardo l’orologio: sono in ritardo. Accelero. “Che fine ha fatto quella mia compagna di scuola?” “Luciano poi è sempre il solito stronzo?” “CRASH!” Un insetto si schianta sul vetro e diventa una poltiglia verdastra. Tratti tortuosi e buche profonde si susseguono.
“BOM”. Forse mi è saltato un ammortizzatore.”
Impreco. Gatti morti sulla strada, tanti e sfracellati, con le carni aperte e le membra dilaniate si bagnano nelle prime ore del mattino. E vedo ricci, topolini anch’essi morti e deformati sull’asfalto e uccelli, perfino un cane putrefatto. Vittime dell’uomo. Assurda strage di esseri innocenti. Impreco ancora. “CRASH!” Poltiglia bluastra che va a confondersi con quello che resta dell’altra. Rami di un albero per terra li evito e per poco non finisco fuori strada. “Ma quanto cazzo piove oggi?”
Mi squilla il cellulare. Non lo trovo, pazienza. Nessuna rondine oggi o passero m’incrocia e nel verde intorno chiazze bagnate di viola, di bianco e di rosa. Primavera imminente. Fiori che colsi una volta. E’ una strada questa che porta a un paese e il paese è di campagna. Paese bello, genuino. Semaforo rosso. Mi fermo e penso a mio nonno che è morto da venti anni.
“Un giorno dovremo morire tutti.” Arriva un altro “CRASH” e una nuova tonalità arcana si stende sul mio mezzo. Riparto, manca poco. Mi accorgo d’un tratto che dei dolori acuti stilettano la mia schiena.
“Ma io sono ancora giovane cribbio! Devo muovermi e non posso rimanere sempre seduto.”
Ho una macchia rossa sui pantaloni; starnutisco. E’ l’allergia e i fazzoletti mancano.
“Anche Alfredo è allergico.”
Ho sporcato il volante con i miei starnuti. Schifo. Mi fermo. Spiazzo desolato, funereo e mi pulisco. “Mi dispiace che sabato non giochiamo più a calcetto.”
La saliva su quella macchia con un po’ d’acqua piovana, è inutile e non viene via niente.
Riparto. Mancano cinque minuti. Alla mia sinistra scorgo la solita pasticceria dalle insegne smorte. Comunque non ho fame. “Mio zio Aldo avrebbe voluto fare il pasticcere, io no.”
Sono arrivato, ogni posto è occupato; parcheggio lontano. Entro di corsa, salgo le scale bagnato. Perché fuori continua a piovere e non c’è il sole. Il cuore fa “TUM TUM TUM” per la fatica.
“Troppi gradini da affrontare”.
Non saluto nessuno e fisso per un istante una maniglia arrugginita.
“Interrogherò quel somaro di Lino.” “Funziona il Pc di sotto?” Arrivo in classe, mi siedo.
Sono le otto spaccate. “Sono un orologio svizzero.”. E sorrido compiaciuto di me stesso. La guardo.
La giovinezza assonnata di venti faccine mi fissa salutandomi: ”Buon giorno prof.”
Ha tredici anni soltanto quella giovinezza, beata lei.
“Chiudi la porta Matteo.”
Francesca è davvero deliziosa, magari fosse mia figlia.
Apro il registro, no li interrogherò dopo.
“Andiamo avanti in Storia.”
Invece andiamo indietro nel tempo per un’ora.
Siamo nel Settecento adesso e io sono Voltaire.