La luce del lampione mi batte sul viso, dandomi la fastidiosa sensazione di essere sotto un riflettore. Poso il libro che tengo tra le mani e mi alzo a chiudere le tende della finestra alla mia sinistra. Spengo le luci del grosso lampadario che penzola sulla mia testa ed accendo la lampada posta sul tavolino di legno color noce che sta accanto al divano di tessuto nero, sbiadito dal sole che filtra attraverso i vetri, quando il tempo è bello. E’ qui che amo passare quella parte delle mie giornate dedicata alla lettura. Davanti a me il “ Grande Puffo”, giallo e blu, con lo scettro a forma di una grossa fragola in mano e sulle spalle un mantello rosso. Sulla larga corona posta sul suo buffo berretto giallo è posato un piattino di plastica con delle mandorle sgusciate che golosamente sgranocchio durante la lettura.
Sono appena passate le 22, 30 e godo del silenzio che mi accarezza, in un’ atmosfera dove i rumori paiono inghiottiti da una lunga spirale che li trascina in un buco nero da dove niente può più fare ritorno.
Ad un tratto, distogliendo lo sguardo dal libro, come sono solita fare, per riflettere su un’ idea od un concetto espresso di tanto in tanto in qualche pagina, la mia attenzione viene attratta dal buco del calzino e la mente comincia a vagare.
All’ improvviso sento provenire dall’ esterno un gran rumore di passi affrettati, quasi di corsa.
Ho l’ impressione che qualcuno stia scappando inseguito da qualcun altro.
Poi una porta sbatte violentemente ed i vetri delle finestre del salotto vibrano come allo sparo di un cannone durante le esercitazioni militari.
Per un lungo istante il mio respiro si blocca. Doris, la mia dirimpettaia, sembra impazzita. Solo una parete separa il mio salotto dalla sua camera la letto.
Al terzo piano del condominio ci sono solo i nostri due appartamenti.
Non è la prima volta che odo le urla della mia vicina. Suo marito, Ubaldo, torna spesso a casa ubriaco e sovente mi capita di incontrare per la scala Doris con qualche livido sul viso. In quei momenti ci guardiamo mute, salutandoci appena. Vorrei consolarla, ma non parlo, in rispetto al suo doloroso silenzio. Ma so che lei legge nei miei occhi il mio muto affetto e la totale condivisione della sua triste condizione.
Ubaldo è, quel che si dice, un animale, nei modi e nell’ aspetto. Di provenienza altotirolese, di media statura, nero come un corvo, a dispetto della sua razza, lo sguardo torvo, non suscita grandi simpatie. Oltretutto non è il massimo dell’ intelligenza, ma, in quanto a boria, non lo batte nessuno.
Mi chiedo spesso come abbia fatto Doris, così fine, gentile e sensibile, a sposare uno così.
Abbandono il libro sul divano e mi avvicino allo spioncino della porta d’ ingresso che sta proprio di fronte alla sua.
In genere, è qui, sull’ uscio dei nostri appartamenti, che ogni tanto Doris ed io ci raccontiamo le nostra vicende, del lavoro, dei nostri figli, e di quanto sia dura, a volte, andare avanti con dei ragazzi adolescenti “sotuttoio”.
Doris è magra, capelli chiari, con dei riflessi dal biondo al castano, occhi verdi, profondi e quasi sempre malinconici. Quando è a casa indossa sempre una vestaglietta a fiorellini che non capisco mai se sia una camicia da notte od un vestitino.
A volte scherza e fa delle battute spiritose, allora il suo viso si rasserena e riesce anche a ridere. Ma un’ aria di rassegnata disperazione accompagna sempre i suoi movimenti.
Aguzzo meglio la vista attraverso lo spioncino, quando vedo la porta dell’ appartamento di Doris aprirsi. Il suo braccio, riconosco il colore della sua vestaglietta, è proteso fuori nell’ evidente sforzo da parte di lei di scappare; poi appare la sua testa, ma un braccio peloso viene fuori e la tira indietro. La porta viene richiusa con un boato da farmi rizzare i capelli, in attesa di sentire il rumore dei vetri che vanno in frantumi. Niente di tutto questo, poi, per alcuni istanti, un sospettoso silenzio. La chiusura di quella porta reca con sé una quiete che attraversa la stanza.
Solo per poco. Mi volto. La luce della lampada mi rimanda le ombre proiettate dai due portacandele di ferro, dalla base rotonda e dall’ alto stelo tubolare, situati a lato della poltrona che dà verso l’ ingresso della sala. La cera delle candele, colando, ha formato sulle basi delle piccole stalagmiti. Le due ombre sembrano degli esili corpi che si accompagnano, in silenzio e misteriosamente.
Non so che fare, resto immobile con un’ angoscia senza fine: quest’ assenza di suoni, di rumori, dopo tanto urlare, è quasi un incubo che ritorna. Un incubo che invade i ricordi. Rivedo una bambina spaurita, nel buio della sua stanza ed immobile nel suo letto, con l’ orecchio teso a cogliere anche il più piccolo rumore. Sa che, finché sentirà quell’ ormai ben noto e per lei terrificante vociare concitato, frammisto ad un pianto di donna, nella camera di fronte e vedrà filtrare da sotto la porta anche la più fioca delle luci, non potrà esserci riposo per lei. Sa che, soltanto quando scenderà dentro la casa l’ assoluto nel buio e nel silenzio, potrà finalmente abbandonarsi al sonno.
Sto per allontanarmi dallo spioncino, ma un’ altra voce gutturale, quasi cavernosa, che pare il ruggito di un animale a caccia della sua preda, mi inchioda alla porta.
E’ quella di Ubaldo che grida delle oscenità irripetibili. Dalle parole urlate e confuse che riesco a percepire, pare che la contesa nasca dalla cena non ancora pronta al ritorno dell’ uomo dal lavoro. So che Doris da alcuni giorni non sta tanto bene. Da tempo soffre di un’ ernia alla colonna vertebrale che spesso le impedisce ogni movimento.
Si sente il frastuono di qualcosa che cade, forse una sedia rovesciata. Altri passi disordinati e confusi. Adesso è nuovamente Doris ad urlare ed avverto una paura agghiacciante nella sua voce. La porta si riapre ed insieme all’ esile figura della donna rispunta anche il braccio peloso. Stavolta la mano afferra una mannaretta spaccaossa, quella che solitamente io uso in cucina per fare a pezzi polli e conigli.
Velocemente rivedo con la mente Doris, mentre sale le scale con le borse della spesa ed il suo passo lento e felpato. Ripenso al suo solito modo di spingere la porta col piede sinistro, dopo averla aperta con la chiave. Ricordo i suoi occhi profondi e tristi.
Altre grida mi costringono a stare con l’ occhio appiccicato a quel buco della porta. La mannaia sta per calare sulla testa di Doris e mentre anch’ io sono sul punto di urlare e spalancare la porta, riporto lo sguardo sul libro che avevo tra le mani, smetto di fissare il buco del calzino e la punta rosea dell’ alluce che spunta e penso che sia assolutamente arrivato il momento di rammendarlo.