Era già passata mezz’ora ed ancora mi trovavo in questa sala d’aspetto mentre fra uno sbadiglio e uno sbuffo aspettavo il mio turno. Per fortuna che l’ipod mi faceva compagnia, mitigava questo stato di ansia e nervoso, che puntualmente mi prendeva. Restavo sempre sorpreso dall’identicità che accomunava le sale d’attesa. Rigoroso tavolino con porta riviste al centro o nell’angolo, alcune sedie, qualche pianta finta o vera, quadri, specchi e magari anche un acquario. Tutto per rendere meno pesante il tempo e o forse per dare calma. Personalmente lo trovavo inutile come gettare un cucchiaino d’acqua sopra un incendio, però....
Ogni saletta può essere un ambiente molto silenzioso, paragonabile ad una chiesa, ma in questa no. C’era un bambino di circa nove, dieci anni che saltava come un grillo a destra e a manca facendo confusione più di un concerto dei Megadeath. La madre, chiaramente, non si curava del piccolo terremoto che imperversava nella stanza. Mi sarebbe piaciuto aprire la finestra e scaraventarlo di sotto, tanto avrebbe rimbalzato sull’asfalto come una pallina. Se la madre avesse obbiettato avrei lanciato pure lei. Dovetti alzare il volume al massimo del mio mp3 per cercare di non perdere la pazienza, fortunatamente per me, la segretaria chiamò il suo turno. Finalmente silenzio.
Fuori si stava bene, meglio che qua dentro. Faceva caldo, ma non un caldo opprimente, una giornata di primavera fantastica. Tamburellavo con le dita imitando il batterista, contavo i secondi che mi separavano dal mio assolo preferito. Ogni tanto suonava il telefono e la segretaria puntualmente con la stessa inflessione vocale di un disco preregistrato diceva: "Buongiorno qui studio del dottor Achilli, come posso esserle utile? . "
Ennesimo sbadiglio, ennesimo sbuffo, sembravo un’incrocio fra un treno ed un arco. Ogni tanto chiudevo gli occhi, pensavo, immaginavo..... volevo scappare da qui. Ero arrivato veramente alla fine della sopportazione, stavo quasi per alzarmi, andare via di qua, fingere un contrattempo, ma tanto non sarebbe servito. Suonò il campanello, un’altra paziente stava per farmi compagnia.
Fosse stato un altro ragazzetto indisciplinato stavolta avrei sfoderato la mia faccia di bronzo.
Apparve sulla soglia come una visione, venni preso da un’irrefrenabile voglia di farle le lastre.
Era alta, cosa abbastanza rara considerando l’altezza media di ogni donna.
Un bel vestito celeste molto corto, stivali e borsa.
Da una parte speravo che non si mettesse davanti a me, ma dall’altra pregavo accadesse.
Per fortuna il rigoroso occhiale da sole scuro mi salvava dalla pessima figura che stavo facendo.
La stavo squadrando come se non avessi mai visto una donna in vita mia.
"Riesce a stare comoda su queste sedie ed apparire allo stesso tempo a suo agio. Non so come fa, la invidio, ed invidio la sedia sulla quale si è seduta.".
Gambe accavallate, profumata, curata nell’aspetto, sembrava quasi un effetto cinematografico da quanto era fantastica. Distolsi lo sguardo per non consumarla, ma la stavo mangiando con gli occhi.
Mi soffermai alcuni istanti su quell’acquario, con tutti quei pesci tropicali, molto colorati, ma molto tediosi. La noia era arrivata a dei livelli incredibili. Avessi aspettato ancora un po’ oltre che le ragnatele avrei iniziato a mettere radici.
Mi stiravo, sbadigliavo e sbuffavo come un treno a vapore, ma non avevo più voglia di aspettare. Ennesima telefonata ed ennesima risposta monotona della segretaria.
Guardai il soffitto e vidi una piastrella rotta. Può capitare, però in uno studio così ordinato, pulito, quasi asettico, vedere quell’unica macchiolina, salta agli occhi come la forfora sopra un abito scuro o come la solita irriverente fogliolina di prezzemelo in mezzo ai denti.
Forse per un caso, non credo ci fosse malizia, mi stava fissando.
Nella mia testa bacata, feci già tutto il film compresa la colonna sonora.
Aspettavo che si alzasse stizzita e mi bacchettasse per il mio abbigliamento trasandato.
Con un gioco di gambe degno del miglior giocatore di calcio, assunse una posizione veramente accattivante ed intrigante. Grazie al mio fedele occhiale da sole, per la piegatura mentale che contraddistingue gli uomini, l’occhio cadde in quello spiraglio, un chiodo fisso che non può essere tolto. Aiutato dalle lenti scure, sbirciai.
"Uno spettacolo così, varrebbe la pena viverlo quotidianamente" .
Sentivo caldo.
Tutta l’ansia ed il nervoso accumulato si stava sciogliendo, dovevo togliermi la felpa.
Avevo fatto la doccia, quindi non ci dovevano essere aloni impertinenti od odori sconvenienti.
Mi osservava, forse incuriosita dai tatuaggi. Non credo per la mia forma fisica o per la mia bellezza.
Avendo a che fare con tanta gente quotidianamente, faccio il commerciate da circa quindici anni, ho imparato o meglio ho coltivato un sesto senso e capisco quando una persona sta per chiedermi qualcosa. Prese un respiro, mi chiese: " E’ il nome di tua figlia quello che ha scritto sul braccio? ".
"No, è del mio cane" risposi. Mi guardò quasi incredula.
" Vedi non ho legami, non ho una famiglia, sono un solitario, l’unica anima che mi sta vicino e quello che mi aspetta a casa è il mio cane. Si chiama Mati. Era il mio soprannome da ragazzo ed ho pensato di darlo a lui.
"Mi guardò ancora più storta di prima.
" Può sembrare stupido o non del tutto giusto dare qualità umane ad un animale e farsi tatuare il suo nome sul braccio, però quando un giorno non ci sarà più oltre che portarmelo nel cuore, nella mente, lo voglio anche sulla pelle".
Vidi nei suoi occhi qualcosa di poco chiaro cambiò espressione.
Non usai un tono di accusa, però fu come se l’avessi condannata.
Abbassò lo sguardo.
Mi sentivo colpevole.
Mi sorrise, mi porse la mano "piacere Alessandra".
Restai quasi imbambolato, le porsi la mia, "piacere Matteo".
Stavo quasi per attaccare bottone e buttarmi a capofitto in una frizzante conversazione.
Purtroppo la segretaria irruppe nella sala chiamando il mio nome.
Dentro di me stavo imprecando come un atleta colto da strappo muscolare.
Il dispiacere era nei nostri occhi.
Mi alzai da quella sedia. Rimase incredula per la mia altezza.
Seguivo la segretaria come un’ombra, ma volevo tornare a sedere.
Entrai nello studio, il dottore cordiale e gioviale come sempre mi stringe la mano, mi domanda come sto e mi invita a sedermi sulla poltrona. Cercavo una posizione comoda, ma sono troppo corti questi aggeggi.
Stavo lì a bocca aperta a guardare il soffitto.
Volevo finisse quanto prima per poter tornare a parlare con quella donna.
Mi alzai dolorante. Salutai il dottore ringraziandolo per la sua pazienza.
Speravo di trovarla lì, ma la sala d’attesa era deserta.
Presi il giubbotto, in tasca trovai qualcosa.
Un biglietto.
"Questo è il mio numero, cercami se ti va, mi farebbe piacere conoscerti meglio" Alessandra.
La chiamerò? Non lo so.
Ora voglio solo uscire da qui, infilarmi il casco, montare sul mio scooter e non pensare a nulla anche perchè il dolore mi sta facendo vedere le stelle senza telescopio.