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Ho sempre amato il cinema. Sono nato con la televisione, almeno dal punto di vista cronologico-temporale, anche se ho passato la maggior parte della mia infanzia senza televisore in casa. La mia passione è stata la «settima arte», mi sono sempre nutrito di celluloide e sono cresciuto nel mito dei personaggi del neorealismo italiano e dei lungometraggi sovietici. Ricordo di essere profondamente turbato dall’imprecazione del prete, dopo l’assassinio del partigiano, nel film Roma Città Aperta di Roberto Rossellini e dai visi scarni dei marinai de La corazzata Potëmkin di Sergej Ejzenštejn. Secondo la mia modesta opinione, questi due film sono i più belli della storia del cinema. In modo particolare, e non soltanto per una questione di campanilismo, Roma Città Aperta, i quali personaggi «il sagrestano, il soldato austriaco, le due donne di spettacolo ed i bambini compongono il mosaico antropologico di un paese sradicato dalle proprie origini e sull’orlo del suicidio collettivo».
Il capolavoro di Roberto Rossellini segna una linea di demarcazione netta tra il cinema formale-didattico e quello d’essai, dove la sperimentazione e la creatività vengono valorizzate soprattutto per i loro aspetti innovativi. Non è un caso se Roma Città Aperta non è considerato un film storico, anzi, come puntualizza Aldo Viganò, ha essenzialmente la struttura di film-cronaca, racconta la Storia nel suo svolgimento immediato, evidenzia più l’urgenza di problematiche presenti che non la tensione verso una prospettiva storica: soprattutto gli manca quell’atteggiamento narrativo, sistematorio e oggettivante, che concorre a definire qualsiasi esempio di cinema storico.1
La corazzata Potëmkin meriterebbe un discorso a parte, perché è giustamente considerato il film più amato dai cinéphiles più incalliti e da una grande tranche degli spettatori più esigenti, in modo particolare dell’ultima generazione, ma come è possibile– scrive Marc Ferro - che questo film, meglio di ogni opera storica, erudita o critica, sia riuscito a evocare magnificamente una situazione rivoluzionaria, nonostante che la maggior parte delle informazioni che vi figurano siano state puramente e semplicemente inventate da Ejzenštejn ? 2
Paradossalmente, la geniale deduzione di Marc Ferro potrebbe essere applicata a qualsiasi altro tipo di film della storia del cinema. La settima arte, infatti, non ha lo scopo di rappresentare la realtà (per questo basterebbe una normalissima videocamera), ma di saper re-interpretarla sul set, attraverso la ricostruzione scenica dell’epoca in cui si sono svolti i fatti, la bravura attorica dei commedianti e, soprattutto, l’esattezza storica in grado di dare attendibilità al messaggio codificato.
Nel capolavoro ejzenštejniano, per esempio, la scena indimenticabile della carrozzina, che cade giù dalla scalinata di Odessa, è determinante per captare la tensione crescente della folla che fugge sotto le pallottole dei militari. Dal punto di vista spettacolare, essa è più icastica e determinante del «leone che balza in piedi» o della stessa teoria del «Urphänomen» cinematografico dello stesso regista russo. Il successo internazionale di Sergej Michajlovič Ejzenštejn è legato più alle opere che ha prodotto, durante la sua attivissima vita artistica (Sciopero, 1924, La corazzata Potëmkin, 1925, Ottobre, 1927, Il vecchio e il nuovo (La linea generale), 1926-29, Qué viva Mexico!, 1930-31, Il prato di Bežin, 1937, Alexandr Nevskij, 1938, Ivan il Terribile, 1944-46) che alle sue preziose e rivoluzionarie teorie cinematografiche, legate soprattutto al «montaggio nel cinema della ripresa da più parti».
Oggi, la maggior parte degli spettatori ricorda il mediometraggio grazie alla celebre battuta di Paolo Villaggio: «è una boiata pazzesca!» nel film Secondo tragico Fantozzi, II (1976) di Luciano Salce… I mass media hanno decretato ufficialmente la morte del «Kinēma»; in realtà, l’invenzione più straordinaria del XIX secolo non si è adeguata al «modernismo» computerizzato e si è ritagliato una nicchia di mercato, all’ombra di una società… in agonia.
Non è il cinema che è morto, ma il nostro modo di percepire la realtà. |
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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«1. Aldo Viganò, Storia del cinema Storico in cento film, Genova, Le Mani, 1997, pag. 31.
2. Marc Ferro, Cinema e storia. Linee per una ricerca, Feltrinelli, Milano, 1980.» |
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più cinema per tutti...bravo... (Monteleone Giuseppe)
interessantissimo, condivido è il nostro modo (Giovanna De Santis)
di percepire cambiato, Bravissimo compliment (Giovanna De Santis)
E un segnalibro per rileggerlo. (Anna Maria Scamarda)
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