Prefazione
Mi fanno spesso notare che scrivo racconti tristi, malinconici e un po’ surreali, quasi fossero estirpati con veemenza dalla realtà quotidiana e proiettati in un contesto psico- sociologico adattato più alle cronache dei romanzi noirs che ai racconti d’ appendice.
I racconti «Lo straniero», « La ragazza ribelle», « La vedova bianca», « L’ adultera», « Il ragazzo del ‘ 99», « Jean- Luc- le- clochard», « Volpe argentata», « Mille miglia», « Giovanni il belgese», per nominare soltanto quelli che hanno riscosso più successo sul web, sono tratti o da storie vere e/o sentite da anziani di Amardolce, durante la mia adolescenza. Li ho soltanto adeguati alle mie esigenze di scrittore e, quando era il caso, ho sfruttato la mia immaginazione per renderli il più possibile verosimili.
A dir il vero, i miei racconti non hanno quasi mai un happy end perché sono attratto per natura più dalle tragedie umane che dal gossip che riempie i rotocalchi dalla copertina patinata.
Parto dal presupposto che «fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce».
La storia che mi appresto a raccontare è il resoconto di un episodio che mi è tornato alla mente quando ho letto sul giornale che un extracomunitario era stato trovato morto in una stazione ferroviaria.
L’ extracomunitario
Era un caldo pomeriggio autunnale ed io stavo scrivendo gli ultimi dialoghi della mia sceneggiatura « Mandorle amare», quando sentii suonare ripetutamente il citofono.
Salvai il file sul computer fisso, mi alzai e mi affacciai direttamente sul balcone del mio appartamento, che si trova al piano rialzato di un piccolo condominio, quando vidi sulla soglia davanti al portone un uomo anziano.
Era vestito dignitosamente ma visibilmente trascurato, e mi chiese:
« Vù comprà? »
Si chinò con fatica, in quanto infermo, frugò in un’ enorme busta di plastica e mi mostrò delle cassette musicali, degli accendini, dei calzini, degli orologi, degli occhiali come se fossero oggetti pregiati.
Gli feci capire con lo sguardo che non ero interessato alla sua merce, ma l'uomo si rivolse a me pronunciando una frase che mi fece ghiacciare il sangue nelle vene.
«HO FAME! »
Lo guardai con attenzione e lessi nei suoi occhi nerissimi la dignità di un uomo disperato.
Gli chiesi in francese da dove venisse e lui mi rivelò che era fuggito da un paese africano in guerra, dove alcuni soldati- bambini avevano ucciso tutti i membri della sua famiglia, e che ora si trovava in Italia in qualità di rifugiato politico.
Poi i suoi occhi si riempirono di lacrime e abbassò lo sguardo.
« Se vuoi, ti posso dare qualcosa da mangiare…», sussurrai tra i denti.
Alzò la testa e annuii senza proferire parola.
Andai in cucina, aprii il frigorifero e misi in una busta della frutta, delle uova fresche, dei pomodori, una lattina di latte, due limoni, dei peperoncini, delle melanzane, degli yogurt e una bottiglia di birra.
Tornai sul balcone con la busta piena di derrate alimentari e gliela porsi. La prese con delicatezza tra le mani e l’ appoggiò sull’ acciottolato.
Guardò con soddisfazione il contenuto del sacchetto ma mi restituì la bottiglia di birra perché la sua religione gli proibiva di bere alcolici.
«Dio la benedica, perché lei è il più povero dello stabile!»
Lo guardai quasi con cattiveria perché non capivo il significato delle sue parole. Io gli avevo dato quasi tutto il contenuto del mio frigorifero e lui mi accusava di non essere stato generoso con lui.
Ero incredulo e un po’ arrabbiato con lui.
L’ uomo si rese conto del mio disagio e aggiunse in francese:
«Lei è il più povero del caseggiato, ma anche il più ricco di cuore, perché è l’ unica persona che mi ha dato qualcosa da mangiare, mentre le altre non hanno neanche aperto la porta».
L’ extracomunitario raccolse la sua roba e la busta che gli avevo dato e scomparse claudicante tra le macchine parcheggiate.
Rimasi in silenzio per alcuni minuti poi decisi di uscire dal mio appartamento per respirare un po’ d’ aria pura.
I dialoghi della mia sceneggiatura potevano aspettare.