Il Casino Reale sovrastava il borgo ch'era tutto militare, ma attraverso dei campi s'arrivava alla pace silente dei miei zii...
Circa una volta l'anno mi recavo, dai cinque ai vent'anni di età, con i miei genitori a trovare il fratello minore di mio padre, dipendente civile nella zona militare di Persano, in provincia di Salerno, alla confluenza dei fiumi Sele e Calore.
Era un viaggio avventuroso nei primi tempi, perché la distanza di cento chilometri dalla mia cittadina a Persano veniva percorsa in treno (due o tre treni) e, poi, con qualche volenteroso autista che fungeva da tassista. Soltanto dal 1964, quando mio padre si decise a comprare una Seicento, il viaggio diventò (relativamente) più agevole.
Entrando in Persano bisognava sottostare a blandi controlli militari (far vedere i documenti e dire da chi si andava a qualche giovane e docile soldato di leva) e, mentre si profilava in lontananza l'imponente (per quel luogo solitario) sagoma del Palazzetto Reale (era stato casino di caccia della monarchia borbonica), la strada conduceva, attraverso una florida vegetazione, all'isolata villetta che l'Esercito aveva destinato ad abitazione per mio zio e per la sua famiglia.
Se il Casino Reale si poteva paragonare al lato di Guermantes per la sua austerità, per i tratti di antica nobiltà e per la sua inaccessibilità, la villetta di mio zio aveva l'aspetto di quello di Mé sé glise: lì era possibile incontrare, in un clima disteso e stimolante per un ragazzo, oltre alla famiglia di mio zio, alcune altre ad essa collegate.
Il personaggio forse più interessante era un cugino dei miei cugini (figlio di una sorella della moglie di mio zio), di dieci anni più grande di me, destinato ad avere un brillante avvenire e poi scomparso prematuramente nel 1997 .
Quando lo conobbi, Aldo Gallotta era ancora un giovane studente che si distingueva per la sua serietà non disgiunta da una signorile affabilità: sarebbe diventato, di lì a poco, il turcologo italiano più noto dell'ultimo quarto del Novecento, professore universitario a Napoli, titolare della cattedra di Lingua e letteratura turca. Lo ricordo (un po' vagamente) giovane, quando, reduce da un soggiorno in Turchia, aveva portato con sé, e sistemato nel salotto della casa paterna, un narghilè, oggetto di curiosità e portatore di un certo mistero per tutti i parenti e vicini. Ero ancora un ragazzo quando fui invitato, con i miei genitori, al matrimonio del suo fratello maggiore, il cui pranzo di nozze si tenne, con molta familiarità, in un modesto ristorante alla periferia di Battipaglia. Può darsi che, fra i motivi che mi invogliarono in seguito a studiare lingue straniere, ci sia stato anche il suo esempio.
La casa di mio zio rassomigliava ad un piccolo cenacolo filosofico, ed il fratello di mio padre (anche se entrambi non erano andati molto al di là degli studi elementari, a causa delle ristrettezze economiche familiari) moderava, con garbo ed acute riflessioni, le discussioni sui più svariati argomenti.
Ogni sera, quando restavamo a dormire a Persano, dopo la cena mio zio accendeva la televisione, che proponeva, pur con il suo unico canale, sempre qualcosa di interessante. Soprattutto quando c'erano delle rappresentazioni teatrali di Eduardo o di Pirandello, e quando c'era una performance di qualche attore particolarmente valente, come Enrico Maria Salerno, s'imponeva il silenzio assoluto, seguito poi, alla fine del programma, da un'ampia e articolata discussione fra noi (o, meglio, fra i "grandi" del gruppo familiare) .
Ho ancora in testa i suoni, particolarmente miti, dolci e delicati, del dialetto locale parlato dalla moglie di mio zio, che anche esprimendosi in italiano conservava quelle singolari inflessioni, ritrovate abbastanza simili, tempo dopo, nell'alto Casertano, dove ho insegnato per alcuni anni. Non erano altro che le parole e i suoni del dialetto napoletano antico, e questa duplice esperienza mi fa senz'altro dar ragione a una "legge" del linguista Bartoli (le fasi linguistiche più antiche si conservano nelle periferie, mentre nell'area centrale si diffondono fenomeni innovativi) .
C'era, in quella casa di mio zio, una vecchia macchina da scrivere, sulla quale, quindicenne, mi esercitai per la prima volta, con grande entusiasmo, avvertendo subito la soddisfazione che, accompagnata dalla musica del ticchettio dei tasti, era in grado di concedermi la visione delle lettere che andavano a depositarsi sempre allo stesso modo sul foglio, dandomi l'illusione di stare scrivendo qualcosa di ben più importante (un libro, un giornale) di quello che abitualmente scrivevo sui quaderni. A vent'anni mi feci regalare da mio padre una "Lettera 32 ", con la quale scrissi tutta la mia tesi di laurea, e che tuttora uso (devo assolutamente vedere l'effetto che fa un mio scritto sulla carta, prima di immetterlo, eventualmente, in rete) .
Ricordo ancora che una sera (ero molto piccolo), per tornare a casa, fummo accompagnati da qualcuno alla stazione ferroviaria di Salerno. Le luci della città erano state da poco accese, ma questo bastò per farmela sembrare immensa e per darmi l'impressione di trovarmi a notte fonda: quante cose, agli occhi di un bambino, appaiono più grandi e più profonde di quanto non lo siano nella realtà!
Che fine avrà fatto quella villetta? Mio zio, andato in pensione, fu trasferito, con tutta la famiglia, in un piccolo condominio, vicino al Casino Reale, e poi, convinto dal genero, un bolognese che ne aveva sposato la figlia maggiore, andò nel capoluogo emiliano, dove poco dopo morì.
Il Casino Reale sovrastava il borgo ch'era tutto militare, ma attraverso dei campi s'arrivava alla pace silente dei miei zii.