Mio padre raccontava spesso di un suo collega, un certo Ossicini. Nati entrambi a fine ‘800 entrarono insieme in ferrovia, ma dopo 30 anni l’Ossicini era ancora manovale.
Era un omone grande e grosso ma balbuziente; gran bevitore di forza erculea ma piccolo di cervello; alto quasi 2 metri, aveva gambe e braccia da orango, spalle larghe e schiena gibbosa, collo taurino ma testa microcefala. Tante furono le avventure di quell’uomo e mio padre s’attardava, in presenza di amici durante la veglia, a raccontarle una ad una.
Ma la più bella che vi voglio qui narrare è che l’Ossicini per arrotondare il magro stipendio faceva il becchino. A quel tempo era costume vegliare i morti in sacrestia e per pochi spiccioli gli eredi pagavano qualcuno disposto a farlo.
Sicché quella sera l’Ossicini arrivò in sacrestia accompagnato dall’amico Scatassi, un disoccupato che gli faceva da spalla. Nel paniere avevano porchetta, piada ed un bottiglione di Sangiovese da 2 litri, in tasca un mazzo di carte per ammazzare il tempo.
Misero tutto sul tavolo vicino al catafalco.
Finita la cena e l’ennesima partita, finì presto anche il vino. Ossicini disse all’amico: “A vagh a to’ un’enta bocia”, ma l’amico, suggestionato dall’ambiente e col terrore di rimanere da solo vicino alla salma, disse che sarebbe andato lui a prendere dell’altro vino.
All’Ossicini non passò inosservata la cosa e gli venne un’idea geniale. Prese la salma e l’adagiò seduta in confessionale, lui si mise nella cassa da morto.
Tornato l’amico trafelato per la corsa e la paura, vide che il compare s’era seduto nell’oscurità dentro il confessionale e gli porse da bere. Vistolo immobile e credendo che volesse scherzare fingendosi morto gli disse: “Dai bé nu fa e pataca!”; contemporaneamente il vero Ossicini s’alzo a mezzo busto dalla bara e con voce cavernosa rispose: “S’en bev lò a begg me!”.
A Scatassi gli prese un colpo e ci volle del bello e del buono per farlo rinvenire! E da quel giorno lo Scatassi divenne più balbuziente dell’Ossicini.