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Il vento, forte, sull’arida sponda
soffiò, in un tempo ormai lontano
e come fiato d’aria profonda
spazzò via il mio uragano
d’una vita giammai feconda.
I fiori profumavano l’arcano
d’anni privi di gioia immonda,
travolgendo tutto ciò ch’era strano.
Dei miei occhi eri la Speranza,
del cielo fosti la luce stellata
ch’io ti guardavo fossi Madonna.
Di natura ti sentivo la Donna
che sempre, con sete ho aspettata,
acqua di cura di quella doglianza.
Ho amato di te la bellezza,
i tuoi Occhi, lacrima di rosa,
il tuo sorriso, lontana brezza.
Ho amato ogni tua cosa
ogni difetto, ogni leggerezza,
bella la tua calma rumorosa
che questa mia bocca, di dolcezza
sempre calda è di te vogliosa.
Ti sognavo come luna serena
e come fine pioggia stridente
ch’io dormivo, nel favoloso
tepore, d’un sogno silenzioso...
e tutto diventava niente.
Taceva il pensiero con la vena.
Suonava la mia anima marina
come corde di chitarra in legno,
la tua voce tuonava in rima
che nulla di te era più degno.
Noi, stesse lame di diversa lima
eppur, senza far parola o segno
nostra l’intesa, nostra la cima
dell’altrui e questo regno,
tanto sicuri noi ad andare
ovunque nel mondo, e non cadere,
convinti che mai potesse finire.
La forza, ch’abbatte questo soffrire,
custodita a me fa tenere
la Chiave del tuo pensare.
Eravamo la vicina meta,
confusione di piante e terra,
noi soli fiori di cometa
che gli altri rimanevan di serra.
Ricordo del tuo viso la creta,
la mano, che questa faccia afferra
e che di baci rendevi seta.
Oggi, diverso piacer sotterra.
Avevo solo sogni da sentire,
cerco la voce tua strana
che null’altro, riesco ad ascoltare.
Se all’indietro potessi andare,
con un cuscino di lana
il dì della fine farei perire.
Sei per me, ancora, il Ver’Amore,
mi perdo, nella lucida grandezza
dei tuoi Occhi di fiera bellezza.
Ti penso, mi si scioglie il Cuore
e tornami a mente il fragore
di quanto t’amavo d’ubriachezza:
non v’era via alcuna di salvezza.
E a noi stessi era stupore.
Il Poeta, che cantò di te a Lecco,
sciolse l’inchiostro al Tuo passare
ch’al demonio venne d’esser cieco,
così i nostri Cuori, come’l mare
in un sussulto d’onore greco
sull’onde ci facevan danzare.
Respiravi. Sentivo il sapore
dell’erba fresca e pioggia d’estate,
le foglie per terra adagiate
ti coloravan le labbra di more.
Quelle guance, del miele il sapore,
il tuo fiato, pesche profumate,
su di me le tue mani posate
facevan passar veloci le ore.
Quello sguardo mi faceva morire,
avrei voluto che di questa Vita
tu, fossi il mio dolce patire.
Le tue movenze d’aria pulita
mi facevan di piacer soffrire
ch’oggi, non conosco altra salita.
Sei stata la mia primavera,
fiori sparsi sulle gonnelle,
profumavi come caramelle
che stordivo, nel cercar dov’era
il segreto, di tanta grazia vera.
Per noi, tra loro le sorelle
ricamavan la luna con le stelle.
E a noi lontana la notte nera.
Ti penso, e mi perdo con la mente
per un viaggio senza meta,
che l’oblio mi rende assente
da ogni Illusione di creta.
Chiudo gli occhi lentamente,
e i tuoi ricordi sono seta.
Le tue mani, schiuma di mare
leggera, dava al mio viso
la gioia nascosta d’un sorriso.
Nulla mi divide dall’Amare
quel tuo corpo su cui cenare,
cantuccio nel vino rosso intriso.
Lontano da te, mi sent’ucciso
senza il tuo spoglio altare.
E poi, quel tuo orecchio ad uncino,
ne facevo con le dita un amo
stonando canzoni, a te vicino
che coi nostri corpi ci fondevamo.
E come stelo di fibra di lino
tremavi, al sentir che ti amavo. |
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Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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